- 2001
Remy Shand – The Way I Feel
Agli albori del nuovo secolo in radio girava un bel pezzo di un cantautore sconosciuto ai più, compreso il sottoscritto.
Take A Message, il titolo della canzone in questione.
Suadente, melodica, energica.
Con ritmo ed allo stesso tempo con stile.
Davvero forte, insomma.
In questi casi vi è quasi sempre un discreto lavoro di produzione alle spalle ed un ottimo management nei dintorni, in grado di allacciare i contatti opportuni al momento giusto e diffondere il verbo per introitare moneta sonante.
Il resto, incluso l’album, è nella stragrande maggioranza dei casi roba raffazzonata nel miglior modo possibile per accompagnare il singolo bomba.
Qualche mese di passione, poi il tormentone termina la sua corsa in qualche compilation del periodo ed il cd finisce nel cestone delle offerte, se non direttamente nel bidone della differenziata.
Prassi consolidata, con rare eccezioni.
The Way I Feel è l’eccezione che conferma la regola.
Ai tempi lo comprai praticamente al buio, per istinto.
Remy Shand è canadese ed io in Canada ci sono nato, quindi sarà stato quello a spingermi all’investimento, tra l’altro in una fase in cui acquistare un CD appena uscito dalla fabbrica corrispondeva ad una penetrazione anale mediante traliccio dell’Enel.
Sono triviale e coprolalico, chiedo venia.
Ma questo era e, come già detto in occasione di altri acquisti isolani, sullo scoglio il dolore era ancor più lancinante.
Nessun rimpianto, sia chiaro.
Cittadinanza a parte, forse mi ha intrigato la sua voce, languida e raffinata, che pareva/pare provenire dal secolo scorso.
Boh, non saprei indicare con esattezza il motivo dello slancio.
Una cosa la ricordo, bene, debbo dire: il singolo -per quanto iper-radiofonico e quindi trascinante, sì, ma pure ad alto rischio canzonetta- sembrava/sembra celare parecchio altro.
Shand nasce a fine anni settanta e cresce in un ambiente rétro, con un padre che ama il soul più della moglie e che unitamente a quest’ultima ispira il figlio ad esplorare sentieri musicali estremamente ricercati, distanti anni luce dalla mondezza commerciale che in gran parte caratterizza l’inizio del nuovo millennio e pure dalla strepitosa elettricità che ha contrassegnato la fine di quello da poco tramontato.
Una dimensione a sé stante, che ne sancisce l’indole originale e lo rende degno di attenzione.
Pubblica su Motown, un indizio non da poco.
E l’album è notevole, non si discute.
Remy Shand è un polistrumentista.
Suona una trentina di cose e le suona tutte bene, pur non essendo un virtuoso di una o l’altra in particolare.
Il background esercitato dal lascito casalingo è senza alcun dubbio percepibile all’ascolto del lavoro in studio.
Soul, R&B, Blues, Pop, Jazz, Funk: un concentrato di suoni potenti e, nel contempo, delicati.
Quel che colpisce di The Way I Feel è proprio la persuasiva forza dell’insieme, in una tipologia di album che non di rado tende a sfasciare i testicoli, dopo un certo numero di ascolti.
Invece no, qui non succede affatto.
D’altro canto ci ha lavorato su per ben quattro anni.
Una gestazione lunga e complicata, che ripaga con gli interessi chi -lui in primis- ha avuto la pazienza di attendere.
La succitata Take A Messagge traina ma non è sul podio delle 11 tracce, sebbene si ragioni di un condensato di perle che altrove fungerebbe da “The Best”.
Everlasting è il brano che Shand reputa maggiormente descrittivo della sua intera opera.
In effetti la voce in falsetto di Remy, il piano sfiorato, la sezione fiati che ondeggia nell’aria e la potente ma mai invasiva batteria sullo sfondo di un tappeto perfetto da neo-soul regalano un emozionante viaggio nella notte dei sensi.
Burning Bridges per me è il miglior viatico per introdursi nel pianeta Shand: signorile, cadenzata, avvolgente e protettiva come una coperta di tessuto morbido eppur impenetrabile.
I Met Your Mercy regge portentosamente la scena, nonostante evochi smaccatamente gente che ad altri farebbe tremare i polsi solo all’idea.
Rocksteady ammicca alla ballata d’autore, con una verve alternata ad istanti di pura passione amorosa.
The Colours Of Day è un esercizio di stile, per come è arrangiata e suonata da manuale dell’artista perfetto.
The Second One è un altro passaggio che vede ritmo e classe fondersi idealmente, trasportando l’ascoltatore negli anni 70.
The Way I Feel (omonima) apre l’album e lo fa in modo oltremodo pregevole, introducendo in cinque minuti tutto ciò che sarà poi mirabilmente esplicato nei restanti quaranta e passa di spettacolo sonoro.
Liberate pare rubata al più ispirato Lenny Kravitz possibile, inteso come vocalist/autore Top e non come altre settanta cose altrettanto Top ma che con la Musica hanno ben poco a che fare.
Looking Back On Vanity smonta con garbo la teoria per cui troppa carne sul fuoco potrebbe scombinare la cottura: dentro ci sono i 3/4 della Musica degli ultimi 50 anni e tutto funziona come il Barcellona di Guardiola.
The Mind’s Eye è un manifesto soul: io ci ritrovo il Maxwell d’annata e ho detto cazzi, direbbe il coprolalico di cui sopra.
Pezzo stupendo, interpretato divinamente e messo in fondo alla tracklist, a voler invitare al riavvolgimento dell’ipotetico nastro ed alla subitanea ripartenza dell’ascolto, del percorso, del cammino, del pellegrinaggio, di quello che pare a Voi.
Marvin Gaye, Stevie Wonder, Curtis Mayfield, Prince e tanti altri si sentono eccome, nel disco.
Le influenze non mancano, va ribadito.
Scritto, suonato, cantato, prodotto, arrangiato, confezionato e scaffalato alla perfezione, The Way I Feel non è l’episodica giocata del difensore di provincia che ben ispirato ed in giornata di grazia indovina il sette con un tiro dalla distanza, quanto piuttosto la prestazione da incorniciare della più talentuosa promessa della squadra che, motivata ed in formissima, si carica il team sulle spalle e lo porta a trionfare nella competizione.
Si potrebbe presumere che questo lavoro sia stato eccessivamente pompato e che, alla fine, sia troppo “da studio” per definirne la grandezza intrinseca con assoluta certezza, tenendo conto che non ha avuto seguiti sui quali maturare convinzioni né, tantomeno, pregressi sui quali basare assiomi.
In sintesi: debuttando sotto l’ala protettrice della Motown e con tutto il codazzo a contorno, anche Renga avrebbe fatto buone cose.
A prescindere che Renga manco se rinasce con le sembianze di Alain Delon e la voce di Frank Sinatra, vabbè.
Invero le pressioni e le aspettative non sono affatto mancate, quando il canadese è comparso sul mercato, proprio in funzione delle informazioni fatte volutamente trapelare dalla major (Universal) che gli ha apparecchiato il palco.
l discorso si complica ulteriormente alla prova del nove, essendo Remy Shand un artista completo, in grado di tenere la scena pure dal vivo.
Questo è bravo, pochi cavoli.
Qui si è fermato, purtroppo.
Nessun bis.
Sì, perché da una ventina d’anni di Remy si sa poco o nulla.
Giusto quello che lui, saltuariamente, lascia trapelare dai social.
Si è sposato, con una delle coriste del filmato soprastante.
Continua a scrivere e comporre, senza pubblicare lavori interi e definiti.
C’è, insomma, ma non si vede molto.
E si sente ancora meno.
Ascolto spesso The Way I Feel.
In forma “malata”, cioè per giorni e giorni, salvo poi remyshandarmi e riporlo nella credenza musicale per mesi e mesi, prima di ritornare a sniffarne il suo prezioso aroma, ad impregnarmi del suo incomparabile odore, a gustarmi il suo sapore lusingatore, ad immergermi in un’esplorazione di vintage e suggestioni che mi piace perché miscela genuinamente antico e moderno, che per quel che mi concerne son quasi sempre sacro e profano, nell’ordine cronologico della scrittura.
TWIF emoziona, eccita, invoglia.
Sposa la qualità dei mostri nominati qualche riga più su col battito degli Earth, Wind & Fire o degli Chic o, per mantenerci più calmi ed attinenti al recente, con un qualcosa dei saltellanti Jamiroquai.
Talvolta si è enfatizzata la sensualità della ballata, andando a spingere un pizzico oltre il necessario -IMHO- sul tasto del romanticismo.
Non era, secondo me, necessario.
Questo disco è romantico nell’anima, nel più intimo e profondo modo che si possa sensorialmente percepire.
Caldo, d’atmosfera, intenso.
E maturo, pure nei testi: di una maturità che ti aspetteresti che so, da un Berry White, per dire.
Non certo da un debuttante canadese autodidatta, col finto rispetto dei luoghi comuni.
Bianco, per giunta.
Che canta come un nero.
Voce non clamorosa, ok, però perfetta nell’ambito incriminato.
Perfetta.
Se deve tornare con una ciofega, meglio che il buon Remy resti nell’oscurità.
D’altronde, volente o nolente, ha lasciato una traccia a suo modo indelebile.
Ha vinto parecchi premi, ha venduto un boato, ha sorpreso molti addetti ai lavori ed ha conquistato una consistente fetta di pubblico.
Abbinare melodia e ritmo senza stancare è un merito raro, ribatto su questo tasto.
Con la dovuta malinconia, oh, è proprio la morte sua.
Perché senza malinconia, quella giusta, non vi è amore che tenga.
E nemmeno arte.
Remy Shand – The Way I Feel: 8
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