Patrick Vervoort - Belgio
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Patrick Vervoort

“Il Blog dei terzini sinistri”, lo definì un amico qualche tempo fa.
In effetti qui ne abbiamo trattati parecchi, di terzini (e laterali) di fascia mancina.
Un ruolo che mi ha sempre affascinato e nel quale mi sono anche cimentato, nelle categorie inferiori.
Preferivo agire da libero ed ero sicuramente più bravo come frangiflutti dinanzi alla difesa, pure se purtroppo in quest’ultima posizione mi sono disimpegnato quando era già troppo tardi per sognare di far meno schifo di quanto fatto sino ad allora.
Ciò detto, sono convinto che il laterale di fascia (destra o sinistra che sia) resti una delle mansioni più intriganti che il Calcio possa regalare ai suoi tanti adepti.

Se poi il laterale in questione rientra anche nella categoria “pupilli”, come nel caso del buon Patrick Vervoort, beh, il gioco è fatto.


Patrick Félix Vervoort nasce nei dintorni della bella Anversa, in Belgio, nel gennaio del 1965.
Il paesino che gli ha dato i natali si chiama Beerse e possiede una forte vocazione industriale, con alcune importanti aziende che in zona portano avanti le proprie attività.

Deve esserci pure una componente sportiva non indifferente, nell’aria, datosi che qui è nato un altro giovanotto che, similmente a Patrick, arriverà ad indossare la maglia dei Diavoli Rossi, come vengono chiamati i giocatori della nazionale belga: e cioè René Verheyen, discreto centrocampista che dagli inizi degli anni settanta sino alla fine degli ottanta militò in alcune note società del paese e collezionò 24 gettoni con il Belgio, finendo secondo ad EURO 1980, in Italia, e partecipando ai Mondiali del 1982, in Spagna, ed agli Europei del 1984, in Francia.

Tornando a Patrick, nelle Fiandre cresce in un ambiente tutto sommato tranquillo.
Intelligente e vivace, gli piace studiare e nei ritagli di tempo in cui non ha impegni con la scuola non vede l’ora di rincorrere un pallone.
A dire il vero adora ogni forma di sport, meglio ancora se all’aperto ed a contatto con la natura.
il calcio è il preferito, però.
Senza alcun dubbio.

Non troppo distanze da casa ha sede la scuola calcio del Beerschot, rinomata in patria per la bontà delle strutture e per la serietà e preparazione dei tecnici che ne fanno parte.
Nel settore giovanile del club Patrick Vervoort inizia a prendere confidenza con l’agonismo e la competizione.

Durante l’adolescenza sviluppa un capello che promette male (e si confermerà tale, purtroppo) ed un atletismo invece di ben altra fattura.
Ragion per cui viene impostato dai suoi allenatori come laterale di spinta: da difensore/centrocampista, un jolly con licenza di difendere ed attaccare.
Stantuffo a tutta fascia, insomma.

A diciassette anni gioca nella Juniores ed inizia ad allenarsi stabilmente con la prima squadra.
Il Beerschot è da poco tornato in prima divisione dopo essere incappato in una bruciante retrocessione: la storica generazione dei Lozano, Sanon e Meeuws è oramai ita e c’è bisogno di nuova linfa vitale per mantenere la categoria.
Appena maggiorenne, Patrick Vervoort esordisce nel massimo livello calcistico del proprio paese.
Inizialmente viene utilizzato con il contagocce, poi conquista il posto da titolare e diventa inamovibile nello scacchiere tattico del suo tecnico, Rik Coppens.

Beerschot

Quando è vicino a raggiungere le centocinquanta presenze in maglia viola, Patrick riceve la convocazione per i Campionati del Mondo del 1986, in Messico.
Lui, che ha svolto tutta la trafila nelle nazionali giovanili belghe (Under 16, 17, 18, 19 e 21), è entusiasta della chiamata del santone Guy Thys, che lo testa prima della kermesse e lo inserisce nella lista degli ultimi arrivati insieme al promettente difensore Demol, dell’Anderlecht.

I Diavoli Rossi iniziano col piede sbagliato la competizione, perdendo per 2-1 con i padroni di casa del bomber Hugo Sanchez.
Si riscattano sconfiggendo l’Iraq (2-1) ed impattando col Paraguay di Roberto Cabanas (2-2), riuscendo a qualificarsi per gli ottavi dove, al termine di un match elettrizzante (4-3), si sbarazzano dell’Unione Sovietica di Belanov, Dasaev, Zavarov e Rats, allenata da Lobanovski.
Altro giro, altra corsa: ai quarti i nordici mandano a casa ai rigori (1-1 alla fine dei tempi regolamentari e dei supplementari) la forte Spagna di Butragueno.
Ad interrompere il sogno della banda di Thys è l’immarcabile Diego Maradona, che in semifinale mette a segno una doppietta e manda all’aria i piani tattici dei belgi, che chiudono con un onorevolissimo quarto posto -dopo aver perso per 4-2 la finalina per la terza piazza con la Francia di Platini, Amoros, Genghini e Vercruysse– la loro avventura al Mondiale.
L’istrionico Pfaff in porta.
Il grintoso Gerets sulla destra, l’affidabile Franky Van der Elst con ai lati il rampante Demol e l’accorto Renquin, in difesa.
In mezzo il talentuoso Scifo, l’imprevedibile Vandereycken ed il geometrico Vercauteren.
Davanti il possente Ceulemans, con il bomber Vandenbergh o lo sgusciante Claesen a dargli manforte.
Squadra ben organizzata, talentuosa, compatta.
E Vervoort?
Il nostro inizia in panca, poi entra nella terza gara del girone di qualificazione e non esce più.
Segna il suo penalty, nella lotteria dei rigori contro la Spagna.
E gioca da titolare le altre partite, da esterno sinistro con licenza di offendere.
Tranne che con l’Argentina, ecco, perché contro i sudamericani, per tentare di limitare il genio di Maradona, i belgi schierano pure Ceulemans e Claesen sulla linea di porta.
Tutto inutile, chiaramente.


Patrick si mette comunque in mostra ed attira su di sé parecchie attenzioni.
Riceve diverse proposte per trasferirsi altrove, ma preferisce attendere un’altra stagione, prima di lasciare Anversa.
Il Beerschot, nell’estate del 1987, non si oppone: la squadra, dopo un paio di salvezze risicatissime, si è assestata nel centro classifica ed ha già alcuni giovani in rampa di lancio.
A Vervoort, egli stesso ancora giovanissimo (appena 22 anni) ma con una buona esperienza del torneo belga ed un Mondiale alle spalle, si interessano alcune compagini olandesi e tedesche.
Lui non vuole allontanarsi dalla patria natia e così il suo cartellino finisce nelle mani dell’Anderlecht.

Patrick Vervoort

Il calciatore si ritrova nella società più importante del paese ed in una squadra appena laureatasi campione.
Dopo alcune vicissitudini di ordine tecnico, sulla panchina dei bianco-malva torna a sedersi l’esperto Goethals, che grazie alle reti del cannoniere islandese Guðjohnsen (padre del più celebre Eiður) porta a casa due Coppe del Belgio (1988, 1989) .
Vervoort vince pure la Supercoppa Belga (1987), ma senza riuscire a conquistare il campionato, che nel triennio di permanenza del calciatore a Bruxelles va ad arricchire la bacheca di Bruges, Malines ed ancora Bruges.
Un quarto e due secondi posti per l’Anderlecht, che torna a vincere il torneo proprio dopo essersi disfatto di Patrick Vervoort.

Una sfortunata coincidenza, perché il ragazzo nella capitale se la cava più che discretamente: titolare fisso e diversi gol a corredo, per lui.
É sul terreno verde pure a Göteborg, in Svezia, nella finale di Coppa delle Coppe che vede opposte Sampdoria e, appunto, Anderlecht.
La spuntano meritatamente i liguri di Boskov, 1-0, con doppietta di Gianluca Vialli (a proposito: auguri!).
L’Anderlecht, prima dell’ultimo atto, ha eliminato Barcellona e Dinamo Bucarest, tra le altre: ma non è bastato per raggiungere la gloria.
Aad de Mos, il tecnico che in finale guida i belgi, pochi giorni più tardi acconsente alla cessione di Patrick, col quale non ha mai avuto un gran feeling.


Anche perché dopo un altro Campionato del Mondo, quello del 1990 in Italia, il mercato intorno al terzino si è fatto decisamente intrigante.
Nella più bella penisola del pianeta il Belgio, ancora allenato da Thys come quattro anni prima e con in aggiunta il fortissimo portiere Preud’homme ed il roccioso centrale Clijsters, ha invertito l’andamento del precedente torneo intercontinentale.
Dopo un discreto girone eliminatorio (vittorie per 2-0 con la Corea del Sud e per 3-1 con l’Uruguay, sconfitta per 1-2 con la Spagna) i Diavoli Rossi escono agli ottavi in una gara sfortunata contro l’Inghilterra, con una rete di Platt messa a segno proprio un attimo prima che si concludano i tempi supplementari.
Vervoort, come nel 1986, non parte titolare nella kermesse: poi si guadagna il posto realizzando una rete contro la Spagna, con la quale ha evidentemente un conto aperto.
Negli ottavi entra invece a pochi minuti dal fischio finale, probabilmente per tirare uno dei tiri dal dischetto che avrebbero potuto decidere le sorti dell’incontro, se il succitato Platt non fosse stato di diverso avviso.

Patrick Vervoort

In estate il jolly passa al Bordeaux, su precisa richiesta del suo (ex) allenatore Raymond Goethals.
Società blasonata, appena giunta alle spalle del Marsiglia Campione di Francia.
Claude Bez, eccentrico presidente del club, rivaleggia col suo pari dell’OM, Bernard Tapie, ma si spinge troppo oltre.
La squadra chiude al decimo posto in graduatoria un torneo ricco di contestazioni e polemiche.
Viene infine retrocessa in seconda serie per questioni amministrative.
Un autentico trauma, sia per i tifosi che per i giocatori.
Vervoort, che ha disputato un’ottima stagione anche dopo l’esonero del suo mentore, ci rimane malissimo.
In Francia si trova bene: la città gli piace molto, con i compagni ha legato (in particolar modo con Battiston, oltre che con Guðjohnsen che era con lui all’Anderlecht) e nel torneo francese ha dato spettacolo, con le sue punizioni al fulmicotone e le sue discese sulla fascia, coperto dal futuro Campione del Mondo (1998) Lizarazu.

Si è reso conto che qualcosa non quadrava dopo l’eliminazione in Coppa Uefa, con la Roma.
Al ritorno, nonostante vari scioperi messi in atto dai calciatori per evitare la radiazione della società, tutti erano allegri e pronti a raggiungere il Castello di Haillan, sede dei ritiri del club, per banchettare spensieratamente con “mogli, fidanzate, attricette e sgallettate varie” (cit. di Oronzo Canà).
Per il belga, con il suo stipendio ed in una situazione di tale crisi economica, è comunque impensabile scendere in seconda divisione.
Patrick Veervort riceve parecchie proposte, di cui due da quello che in quel momento è il miglior campionato al mondo: la serie A.
Una è della Samp, che tergiversa in quanto ha diversi obiettivi sul suo taccuino.
L’altra è dell’Ascoli del vulcanico presidente Rozzi, che mette sul piatto due miliardi di lire (in due rate: un miliardo e trecento milioni subito, cash, mentre la seconda tranche sei mesi più tardi).
Per il Bordeaux è oro puro.
Il belga ci pensa un paio di minuti, giusto per correttezza nei confronti del suo entourage, poi accetta con entusiasmo.


Picchio De Sisti (“e gli spezzo pure la noce del capocollo“, cit. bis di Oronzo Canà), allenatore dei neopromossi marchigiani, si ritrova una compagine non all’altezza di un torneo talmente complicato.
Molti esordienti, tante incognite, poche certezze.

L’esito è scontato, nonostante l’avvicendamento tra lo stesso De Sisti e Cacciatori.
A fine campionato l’Ascoli è ultimo in graduatoria, con soli 14 punti raccolti.
L’esperienza di Bruno Giordano non basta a risollevare le sorti del team.
Il portiere Lorieri prova a metterci qualche pezza, ma è solo contro tutti.
Il tedesco Bierhoff è ancora acerbo e l’argentino Troglio, da solo, in mezzo può far ben poco.
Gli altri naufragano indecorosamente, incluso Patrick Vervoort.

Patrick Vervoort - Ascoli

Una marea di infortuni ed un rigore sbagliato contro l’Inter, in un match che poteva cambiare i destini dei bianconeri: una sorta di sliding doors, quantunque è veramente impresa ardua immaginare che la banda di Rozzi potesse riuscire in qualche modo a salvarsi, con quella paccottiglia di mestieranti buoni al massimo per la B (tranne qualche elemento, eh).

Vervoort passa per bidone, come accaduto qualche tempo prima al suo amico, connazionale e collega Demol.
E come nel caso di Demol, si tratta di una definizione alquanto ingenerosa.
Meteora sì, bidone no.


Perché Patrick Vervoort è stato un buon giocatore.
Di sicuro non un campione, manco per scherzo.
Ma un buon giocatore sì, secondo me.
Due Campionati del Mondo -curiosità: entrambi col numero 22 sulla maglia- non si giocano per caso o per fortuna.
Laterale di fascia mancina, capace di muoversi con discreta valenza sia in difesa che a centrocampo.
Poteva giocare in una difesa a 4, da terzino puro, ed in una difesa a 5, da esterno.
A centrocampo ha spesso agito da quarto di sinistra, occupando pure la posizione di interno, in qualche occasione.
Capello discutibilissimo, ribadisco: ma ottima gamba, fiato a profusione e discreta progressione.
In Nazionale Thys lo ha utilizzato anche come “finta ala”, più che altro con lo scopo di proteggere centrocampo e difesa dalle incursioni avversarie.
Un calciatore tatticamente diligente e duttile, dotato, di un bel tiro di sinistro.
Segna spesso su punizione e calcia bene i rigori, per quanto l’errore contro l’Inter, citato in precedenza, sia rimasto impresso nella memoria degli sportivi italiani.
Nel Bel Paese, a causa degli infortuni, ha giocato poco e male.
Inoltre, per dimostrare il suo valore, ha non di rado ecceduto in giocate di alta scuola che non hanno mai fatto parte del suo repertorio e che, manco a dirlo, hanno finito per perorare la causa di chi è convinto che il giocatore sia oltremodo mediocre.
Oltre ai due Mondiali annovera una trentina di presenze in un Belgio di assoluto rilievo ed esperienze in compagini importanti quali Anderlecht, Bordeaux e, più tardi, Standard Liegi.
No, non parliamo di un bidone.
Per quanto, tocca ammetterlo e ribadirlo, l’esperienza italiana è stata pessima e, fondamentalmente, ha rappresentato il canto del cigno per Patrick.


Difatti l’annata nelle Marche segna il suo addio alla Nazionale, col nuovo mister Van Himst che pur avendolo avuto alle sue dipendenze all’Anderlecht, decide di non avvalersi più della sua figura.
L’Ascoli lo cede a prezzo di saldo allo Standard Liegi, dove ritrova Demol, ma gli infortuni continuano a tormentare il calciatore di Beerse.
In patria prova a rilanciarsi, senza fortuna.
Lo Standard non riesce a vincere il campionato e lui non trova continuità di rendimento, passando più tempo in tribuna che in campo e/o in panchina.
La concorrenza è forte, in primis quella del buon omologo Leonard.
Ad appena trent’anni Patrick Vervoort è ben avviato sul viale del tramonto.

Prima che scada il triennale con il Liegi, nel mercato autunnale del 94, si accorda per un contratto di diciotto mesi con gli olandesi del Waalwijk.
In Eredivisie scende in campo una decina di volte in tutto, senza entusiasmare e con ancora diversi malanni fisici ad interromperne di continuo la ricerca della forma.
Il C.V. gli concede altre due opportunità, sul finire della carriera: la prima in Portogallo, al Vitória Guimarães, allorquando gioca pochissimo ed incide ancor meno.
La seconda al Tolone, in Francia, ove raggiunge il solito Demol e colleziona soltanto tre gettoni di presenza in seconda serie, prima di rescindere con il club transalpino che a fine anno retrocede mestamente in terza divisione.


Rientrato a casa, Patrick è contattato dai dirigenti del KFC Schoten SK, un piccolo club della provincia di Anversa che nell’ultimo torneo ha vinto il campionato provinciale e che è alla ricerca di elementi validi per tentare di saltare il fosso del dilettantismo ed affacciarsi nelle serie più professionistiche del calcio belga.
Il giocatore accetta, firma un biennale e mette la sua esperienza al servizio dei compagni, che vincono pure la quarta divisione e centrano la salvezza in terza, l’anno successivo.
Al termine del quale, con 34 primavere sul groppone, Vervoort appende gli scarpini al chiodo.

Non si sente portato per allenare, così decide di mettere su una agenzia di scouting.
Scopre ed assiste talenti.
Nel tempo libero gioca a golf ed ama viaggiare.

Patrick Vervoort

Segue con affetto le squadre nelle quali ha militato ed ha il cruccio di essere incappato in una stagione sfortunata col Bordeaux, nonostante lui avesse davvero ben impressionato, e di non aver dimostrato invece il suo valore in Italia, di certo il fallimento più evidente della sua carriera.


Il motivo?
Gli infortuni, in primis.
Se i muscoli si fermano, la testa può far ben poco.
Questo è indubbio.
Però l’impressione è che il belga non disponesse di una personalità prorompente, ecco.
Una cosa è la tigna e a Patrick non mancava di certo.
Un’altra è il temperamento, cioè la capacità di adeguare il proprio carattere agli ostacoli che la vita frappone sul cammino di ognuno di noi.
Lì, forse, qualche piccolo limite c’era.

Fossi in lui, niente di cui lamentarsi troppo.
Pupillo del sottoscritto e con due Mondiali alle spalle.
Uno dei quali è quello del 1986: il TOP.
Vi pare poco?

E finalmente, alla soglia del cinquantottesimo compleanno, un capello come si deve.
Assafà!

Patrick Vervoort: meteora.

V74


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