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Non è soltanto un gioco: Diego Armando Maradona
Sono giornate del cazzo, queste.
Il Covid, le paranoie, i casini.
Giornate veramente del cazzo.
Poi capita che devi fare alcuni lavori in casa e seppur con tutte le cautele del periodo, scambi due chiacchiere con gli amici di sempre.
E di che vuoi parlare?
Di lavoro, certo.
Di Lino Banfi e dei film anni 80, da scompisciarsi dalle risate.
Volente o nolente un accenno alla Fenech ed agli altri patanoni del tempo è immancabile, altro che Diletta e Wanda, con tutto il rispetto dovuto a chi le espone senza un domani.
Ma più di ogni altra cosa si parla di Calcio.
Quasi sempre di Lui, Diego Armando Maradona.
Anche oggi.
O ieri, perché ho perso la concezione temporale.
L’ho persa giorni or sono, mentre salutavo gli amici di cui sopra, a tramonto bello che andato.
Entro in casa e mi preparo per una calda doccia, di quelle ritempranti.
Alimento il mio zoo, in primis: i gatti sono affamati, il cane ha sete.
Tutti sistemati, ora è il mio turno: accendo un paio di candele aromatiche, ci sono andato in fissa da mesi: mi rilassano e sopprimono gli odori di succitati condomini e, più che altro, i miei.
Mi reco al pc per mettere un po’ di musica in sottofondo e vedo la pagina del Corriere della Sera, lasciata aperta ore prima, con una foto enorme di Maradona.
Non mi serve leggere il titolo.
Resto paralizzato.
E le lacrime iniziano a solcarmi il viso.
Non piango mai per i lutti.
Non l’ho fatto nemmeno con i miei cari, quantomeno a caldo.
Il perché è intimo, arcaico e filosofico, ma conta poco.
Piango spesso per altro, invece: per le sofferenze dei bambini e degli animali, nella maggior parte dei casi.
I deboli.
Piango molto al cinema, se l’opera mi compenetra le viscere.
Piango talvolta quando il buio mi divora, perché ho imparato a non trumanshowiarmi per non farlo.
Per i lutti no, però.
Mai.
O per meglio dire: quasi mai.
Maradona non è stato il più grande calciatore della Storia del Calcio.
Assolutamente no.
Da anni combatto una quasi solitaria battaglia, in tal senso.
Il buon Candido Cannavò, per un bel po’, mi diede manforte.
Pelé, Di Stefano, Cruyff e Messi si giochino pure le loro carte, a riguardo.
Ogni appassionato potrà avere le sue idee ed i propri gusti, come logico che sia.
Una sola, granitica certezza: chiunque sia il vincitore, nella ipotetica graduatoria di sempre, non sarà mai Diego Armando Maradona.
Perché Diego Armando Maradona è altro.
Una categoria a parte.
Non Campione, non Fuoriclasse, non Asso.
Lui è stato, è e sarà altro.
Ieri, oggi, domani.
Categoria: Maradona.
Nel 2020 sono un uomo criticabile, per molteplici aspetti.
Ma da infante ero un avanguardista, insindacabilmente tra i migliori prospetti della mia generazione.
Molti mi rammentano spesso di come andassi a scuola con la cartella ed il Corriere dello Sport sotto braccio.
Divoravo Calcio, letteralmente.
Il Calcio per me è stato un amico vero, un’ancora, un compagno di vita, un aiuto straordinario nel percorso di crescita.
Non lo dimentico mai, nemmeno oggi che guardando certe partite o leggendo come viene raccontato ci sarebbe da dedicarsi al cricket.
L’ho giocato, col 46 di piede ed un fascino che comportava distrazioni continue.
L’ho seguito, maniacalmente.
E lo seguo tuttora.
L’ho amato, visceralmente.
E lo amo.
Sì, lo amo ancora.
Sono stato un pioniere nel seguirlo con frequenza allo Stadio sin da giovanissimo: negli anni ho spronato parecchi amici a godersi questo incredibile spettacolo.
Nell’epopea cragnottiana ho trascinato molti di loro all’Olimpico: con i campioni sul terreno di gioco è più facile attirare seguaci.
Speravo di riuscire a trasmetterne l’ardore, la passione, la bellezza.
Il vero Amore è spontaneo, non corruttibile.
Ispirabile, forse sì.
Ho aiutato più di qualcuno ad Ischia che mi domandava come arrivare ad Udine, quanto tempo ci volesse dal porto di Cagliari al Sant’Elia, come si potesse evitare di passare in zone pericolose a San Siro.
Google Map era ben lontano dal vedere la luce.
Si viaggiava ad amicizia, rispetto, condivisione.
Ho ricevuto riconoscenza, affetto, stima.
E sono nati rapporti profondi, a dispetto del tifo e/o delle simpatie reciproche.
Sì, perché bisogna dirla fino in fondo: tifare Lazio fuori Roma è un viaggio nella follia.
Nessun merito, ci tengo a dirlo: quanto piuttosto un affettuoso rimborso per i danni epocali che il Fato si era divertito ad infliggermi in tenera età.
Sin da neonato l’ho tifata.
Anzi: l’ho amata.
Della Lazio ti innamori.
Come di Maradona.
Il quale, per inciso, un gol brutto alla Lazio mica l’ha fatto, fosse mai.
La prima partita di serie A vista in uno Stadio dal sottoscritto non è stata dell’Aquila.
Lei era in B ed a Roma ancora non ero sbarcato.
Non c’è bisogno di toccare il Sole per intravederne la luce, però.
I Colori, lo Stemma, la Storia.
Era già tutto lì.
E poi Bruno Giordano: il centravanti, per eccellenza.
Maradona, anni più tardi, lo definirà “il miglior attaccante italiano”.
Lo era, Giordano.
Lo era per davvero.
Manco il tempo di dedicargli le prime pippette adolescenziali e passò al Napoli.
Un vicino di casa che con mio nonno (il quale mi ha fatto da padre) scherzava sul fatto che conoscessi tutti i giocatori di A e B in un età nella quale lui -da piccolo- nemmeno sapeva le tabelline, propose al boss di portarmi al San Paolo.
Ricevuto l’ok paterno, si scelse di evitare la medesima proposta alla mamma-nonna.
Dopo aver perso mia madre nonché sua figlia non si era mai ripresa del tutto -come ovvio che fosse- e viveva in una perenne ansia da tragedia: spiegarle che qualcuno mi avrebbe portato allo Stadio, in un’epoca tosta e confusa, sarebbe stato estremamente rischioso.
“Ma in tv non fanno vedere i gol?”, avrebbe candidamente risposto.
Le fu detto che avrei trascorso la giornata col suddetto vicino in un Parco Termale della zona, gestito peraltro da un di lui familiare.
Sarà la prima di una lunghissima serie di amorevoli stronzate che vedranno protagonista il sottoscritto, il Calcio e mia madre-nonna.
Per anni non le dirò mai che lo Stadio è la mia seconda casa: in un paio di occasioni ci penseranno, involontariamente, persone che mi avevano visto inquadrato in alcune trasferte dove nel settore ospiti il numero di persone presenti era talmente infimo da dover spingere la regia a soffermarsi anche su di me, per portare a casa la pagnotta.
Mia mamma-nonna ad un certo punto capirà.
Ed amorevolmente mi restituirà pan per focaccia, facendomi illudere di essere un ganzo.
Giusto così.
La mia prima prima partita allo Stadio non è un match qualsiasi.
No.
Trattasi di Napoli-Roma.
Un battesimo di fuoco, ancor di più per un Laziale.
Giallorossi e Napoletani sono gemellati.
Un gemellaggio destinato a finir male, lo si sarebbe capito ben presto.
Quel giorno vi è però unità, fermento, tensione: è uno scontro al vertice, sebbene si sia ancora a fine settembre.
A fine stagione il Napoli finirà terzo, la Roma seconda.
Ricordo ogni singolo frammento di quella giornata.
Il furgone da Forio ad Ischia, il traghetto per il Molo Beverello, il bus e poi il tram a Napoli, Fuorigrotta, il trambusto, le noccioline, le bandiere, i cori.
Un macello, a dirla tutta.
Lo Stadio è vita.
Qualche parentesi cupa, a sottolineare e valorizzare i frangenti di splendore.
Vita, per l’appunto.
Giordano gioca maluccio: sente aria di derby, probabilmente.
Indossa ancora la Maglia della Lazio sotto quella partenopea, per certi versi.
Ad un tratto mi accorgo che i miei occhi si sdoppiano: in effetti ero un quattrocchi da primato, con l’astigmatismo che mi costringeva a portare due fondi di bottiglia, tipo il ragionier Filini.
E pensare che anni dopo sarei diventato una farlocca sottospecie di sex symbol…
Tornando alla partita, ho una visione.
Altro che Medjugorje: vedo Dio.
Quello vero.
Nessuna blasfemia: Maradona andava goduto allo Stadio, per capirne la grandezza.
I filmati, youtube, i racconti.
Tutto molto bello.
Però un giocatore lo vedi in e, soprattutto, dal campo, non c’è niente da fare.
Un faro.
La luce.
Non possedevo gli strumenti odierni per atteggiarmi ad espertone, eppure era evidentissima la capacità dell’argentino di decretare le sorti di qualsivoglia evento lo vedesse protagonista, dal match di campionato alla grigliata tra cugini.
La Roma dispone di una buona squadra, soprattutto di un centrocampo di qualità e sostanza: Cerezo, Ancelotti, Boniek, Giannini, Conti.
Eppure Maradona, ogni qualvolta si accende, se li porta appresso come dei cagnolini ammaestrati.
Talento, estro, tecnica, personalità, carisma.
Carisma.
Carisma.
Carisma.
Uscì dallo Stadio con una voglia incredibile di Olimpico, con una immensa riconoscenza per chi mi aveva portato al San Paolo sperando che ci mettessi radici e con la scientifica consapevolezza di aver osservato dal vivo la dimostrazione divina in quello che per me era -e per certi versi ancora è- lo spettacolo più bello del mondo.
Oggi, ad oltre trent’anni di distanza, ripenso a quanto ami questa magia.
Avrei potuto incontrare Maradona in un paio di occasioni.
Era ospite fisso ad Ischia, talvolta pure in incognito.
Una delle ville che lo ha di sovente ospitato dista da casa mia sì e no 500 metri, in linea d’aria.
Il giardino di codesta dimora era sotto l’egida di mio padre-nonno, che ne curava l’aspetto con frequenti consigli e consulenze al proprietario.
Il quale, in alcune occasioni, si propose gentilmente per il fatidico incontro.
Non ho mai amato le foto col campione, il cosiddetto selfie odierno.
L’autografo men che meno.
Negli anni ho avuto il piacere -reciproco, s’intende- di conoscere parecchi esponenti di nome della materia calcistica.
La location senz’altro aiuta, la faccia di cazzo contribuisce a definire la scena.
Ne ho sempre approfittato per domandare cose di spogliatoio, riti, leggende, odori, simpatie, aneddoti.
Fin dove arriva la voglia di condividere, ci mancherebbe.
Lo avrei fatto pure con Maradona, magari con più fanciullezza per ragioni anagrafiche, ma con la medesima curiosità che mi accompagnerà finché campo.
Non accadde, così come con Massimo Troisi, che però imparerò ad amare alla follia nel corso degli anni.
Di Maradona non vi è compagno che non parli con una dolcezza che esula dal contesto e che regala la sensazione, fortissima, che tutto ciò che viene raccontato su di lui sia vero.
Ben prima di morire, eh.
Dopo son tutti eroi, si sa.
L’idea che si potesse permettere di coprire ed aiutare compagni ed amici in quanto Maradona è per me assolutamente erronea.
Semmai è vero il contrario: il rischio di essere sottoposto a rotture di scatole per ogni respiro effettuato è stato concreto.
Eppure Lui è andato per la sua strada: a volte tortuosa, a volte impraticabile.
Raramente liscia.
Il personaggio non ammette mezze misure: la droga, gli eccessi, l’inquietudine, la vis polemica.
L’immenso talento a far da contraltare a tutto il resto.
Ed ogni ostacolo aggirato come se fosse soltanto un birillo posto dinanzi ad una infinita serie di barriere da superare fino al giorno in cui la bara si chiude e viene calata nel fosso.
Quando Goikoetxea lo sfasciò, era il 1983, Diego sorrise senza malizia durante le riprese in ospedale.
Tornò, riprese a dar spettacolo e diventò una furia in una sola occasione, in tutta la sua carriera, quando si ritrovò proprio dinanzi ai baschi.
A modo suo, con una discutibile capacità di analisi ma con altrettanta veemenza e sincerità, è stato un uomo onesto, pulito, coraggioso.
Coraggioso.
Coraggioso.
Coraggioso.
Alcune sue battaglie, va detto, erano tutt’altro che folli.
E su certune vicende famigliari dalla ingarbugliatissima cronologia sarebbe meglio stendere un pietoso velo, oggi più che mai.
Chi non ha peccato scagli la prima pietra, tranne che non si tratti delle solite voci di incontestabile purezza.
Le più putride, abitualmente.
Nemmeno il più accalorato fan boy difenderebbe Maradona dalle accuse di essere stato un uomo imperfetto.
Nemmeno il più coglione essere umano lo sarebbe tanto -coglione- da non intravedere una marea di attenuanti per una persona vissuta perennemente sotto una pressione folle, a rappresentare un paese, una città e due popoli mediaticamente esposti e mai, anche per colpe intrinseche gravi, protetti adeguatamente dal sistema.
Una pressione che avrebbe disintegrato chiunque.
Chiunque tranne che le solite voci di indubbia saldezza morale.
E, purtroppo, pure fisica.
Perché l’erba cattiva non muore mai.
Quasi mai, anzi.
Ho letto poco o nulla nei giorni scorsi, su di Lui.
Non ho guardato immagini e filmati, che peraltro potrei recitare visivamente a memoria.
Le più recenti mi son fatto il regalo di non aprirle, per non chiedermi come sia possibile che un amico, un solo stronzo di amico, non potesse mettere fine ad uno scempio allucinante, pur nelle immaginabili difficoltà del caso.
Mi sono auto-graziato ed ho evitato il tuffo nell’inevitabile letame dell’ipocrisia.
Ho elaborato il lutto, piuttosto.
Perché per me, e per tutti quelli come me, è un autentico lutto.
Con Diego Armando Maradona non se ne va soltanto una figura iconica, un protagonista delle domeniche che furono, un Campione sportivo.
Con lui va via una parte di tutti noi, germogliati a pane e Calcio.
Cresciuti con dei valori, vorrei aggiungere: discutibili, certo.
Non di rado molto discutibili.
Non meno di quelli di coloro che son convinti di possedere le chiavi del Paradiso, eh.
Dove oggi non sarai di certo tu, caro Diego.
Il Paradiso è il posto più merdoso che esista: quello di cui tutti parlano bene, decantano le virtù, raccontano le beltà, magnificano la compagnia eppure, nonostante tutto questo, hanno il vivido terrore di andare.
E non esiterebbero ad uccidere il più amato parente, pur di rimandarne l’approdo.
No, per carità.
Tu hai bisogno di pace, quella vera.
Di serenità.
Di tranquillità.
Che chissà da quanto cercavi.
E che spero, finalmente, Tu possa aver trovato.
Addio.
E grazie.
Per i miei genitori, per la mia infanzia, per l’adolescenza, per i ricordi, le emozioni, le attese, i momenti e per quel Tuo sorriso bambinesco, che personalmente ho adorato.
Grazie in particolar modo per i sogni.
Ogni singolo essere umano che sia entrato in un qualsiasi campo di Calcio ha sognato di essere Te e/o, come nel mio caso, di marcare ed annullare uno come Te.
Impossibile, lo so.
Ma stupendo, da sognare.
Forse ancor più stupendo dell’immane talento e del genio unico ed irripetibile che hai mostrato al pianeta.
Chi non coglie questo aspetto, beh, è “un sacripante”.
Il Calcio.
La Vita.
Grazie di tutto Diego, di vero cuore.
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