- 2019
Nick Cave – Ghosteen
Nick Cave – Ghosteen: 9.
Oh yes, 9.
Tocca partire dalla fine, una volta tanto.
9 pieno, senza discussioni, che qui la password la posseggo solamente io.
Nick Cave è rinomato per la sua incredibile meticolosità artistica e professionale: passa ore ed ore a riflettere sui suoi testi, modifica, taglia, cuce, crea note e le smuove con furente pathos, inventa, trascina, smonta e rimonta, genera, prega e bestemmia, tace.
Un artista completo, verace, talentuoso.
Conosco a menadito un paio di suoi lavori, ho seguito poco il resto: boh, manco saprei spiegarmi sta cosa, non usuale.
Lui mi piace, parecchio pure, ma a lungo andare mi diventa indigesto per quel suo ualleroso andazzo filosofico-religioso che, qualora cantasse nella lingua di Dante, potrebbe farmelo tranquillamente passare per Branduardi che interpreta un brano di Battiato pensando ad Alice che racconta la propria vita alla Mannoia.
Dopo l’assurda morte del figlio, poi, è naturale che certe attitudini abbiano finito per incupirsi ancor di più, addensando gli orizzonti della mente e del cuore di un uomo che fa delle sensazioni interiori il proprio credo esistenziale.
Ce ne sarebbe abbastanza per evitare non soltanto di ascoltare il suo ultimo album, quindi, ma anche per astenersi dal passarci fisicamente vicino nel negozio sotto casa.
Ma sarebbe un errore.
Un errore colossale.
Perché Ghosteen è un masterpiece.
L’ho ascoltato diversi mesi or sono, per la prima volta.
E ho pianto, live.
Commuoversi per un album non è cosa inusuale, naturalmente.
Ancora meno per me che sono una mezza checca isterica e ho la lacrima facile, in realtà più per strada o al cinema che in musica.
La cosa che mi ha fatto riflettere, dopo, è l’emozione in tempo reale: nulla di legato ad un precedente ascolto, ad un ricordo, ad un momento, ad un evento, ad un qualsivoglia secondo di una qualsiasi vita antecedente.
Niente di tutto ciò, no.
Oppure tutto questo insieme, non lo so.
Resta il fatto che Ghosteen entra come una lama nel burro nell’anima dell’ascoltatore, quantomeno la mia, squarciandola come non mai, disponendo dei suoi/miei sensi, definendo confini indefinibilmente indefiniti e sconvolgendo un equilibrio già di per sé poco precario, per non dire del tutto inesistente.
Un viaggio onirico, poetico, intensissimo: il cantato e il parlato che si contrappongono e raccontano un feroce tentativo di rinascita, un agognato desiderio di pace interiore e di riappacificamento con tutta la merda che la vita, anche ai divi, prima o poi costringe ad ingoiare.
Una sola risposta, affiora dagli abissi: l’amore.
O meglio: Amore, quello vero.
Poca batteria, chitarra accennata, un po’ di piano, spezzoni di sintonizzatore, un’elettronica minimale, sonorità languidamente ambient che in determinati frangenti rimandano ad alcune sperimentazioni ardite di quell’altro genio allucinante di Marc Hollis.
E poi la voce di Nick: lo strumento principe dell’opera, dopo la sua anima tormentata.
Che ispira e domina letteralmente la scena, a metà tra l’oscurità della notte con la sofferenza del distacco e l’arrivo dell’alba ed il suo conseguente desiderio di speranza.
Nick Cave è persona troppo intelligente e lucida per non sapere che l’alba è una pia illusione: certi distacchi, certi lutti, certe devastazioni emotive, beh, non sono rimarginabili.
Mai.
Non si sanano.
Ma si tira avanti per chi è intorno, per dare un significato alle giornate, per premiare chi ha sacrificato fosse un solo istante nel tentativo di alleviare il dolore, per non rendere superfluo il passaggio di chi non c’è più, per non svilire la memoria di ciò che ora è altrove.
Perché chi di speranza vive, disperato muore.
Una condizione connaturata e necessaria, per alcune anime maledette.
E, soprattutto, per dimostrare a se stessi che si è vivi, anche quando si è perfettamente consapevoli del contrario: che tanto non serve a nulla autoconvincersi che non sia così, no.
Bisogna certificarlo, con un atto di coraggio.
Ghosteen vince la sfida e lo certifica appieno, impeccabilmente.
Da sentire, più che ascoltare, compenetrando il dolore dell’uomo, sorseggiandone la tensione, rubandone una dose di melanconia, chiudendo gli occhi e godendo masochisticamente la sofferenza delle proprie vene che si dilatano senza alcuna pietà sotto le sferzanti note di chi ha capito che i silenzi e le grida possono essere incredibilmente complementari, talvolta.
Non per tutti.
Non sempre.
Non a cazzo.
Da subire/sorbire a piccole e rare dosi, sotto prescrizione sensoriale, accurata e meticolosa.
Al momento giusto, ammesso e non concesso che ve ne sia uno.
E con lo spirito adatto, a patto che si riesca ad educarlo.
Non ascoltavo -sentivo- qualcosa di così ancestralmente mistico da una vita.
Musica, voce, testi: manco un capello fuori posto.
Un viaggio in cuffia, auricolare destro nel cuore ed auricolare sinistro nell’anima.
Grazie, Nick.
Devastante quanto salvifico.
Mi hai squarciato, inondandomi di tristezza e gioia ed emozionandomi come pochi dischi hanno saputo fare.
Il mio Dio è veramente uno stronzone apocalittico e mi combatterà fino alla fine e oltre, purtroppo.
Ma chissà che il tuo non sia leggermente più distratto in futuro e possa finalmente averti in Gloria, dopo averti inculato con lo sputo plurimo.
Gloria eterna, naturalmente.
Nick Cave – Ghosteen: 9
V74