- L’autorevole
Matthias Herget
Augenthaler, Stilieke, Pezzey, Sauer.
I centrali difensivi della vecchia Bundesliga mi piacevano parecchio.
In particolar modo i “liberi”: ancor di più quelli che sapevano impostare, oltre che proteggere il fortino.
Beckenbauer diede inizio alle danze, arrembando in attacco quando ne aveva la possibilità.
Matthäus, Thon e altri ancora conferirono, nel tempo, ampio risalto al ruolo sfruttando una tecnica da centrocampisti offensivi e mettendola ulteriormente a punto nel finale di carriera, unendola ad una maturità ed esperienza che faceva davvero la differenza, in campo.
In Germania di liberi forti ve ne sono stati diversi, negli anni 80 e 90.
Alcuni avrebbero meritato maggior fortuna, in carriera.
Qualcun altro ne ha avuta abbastanza, ma per una ragione o per un’altra non tutti ne ricordano le pur meritevoli gesta.
Come accade per Matthias Herget, uno dei migliori elementi della propria generazione.
Uno che lo stesso Beckenbauer definì “il miglior libero puro espresso dal calcio tedesco”.
Per libero puro s’intende colui che gioca alle spalle di un paio di marcatori (stopper) e fa partire l’azione dalle retrovie, impostando pure il gioco, ove necessario.
Ausputzer, per i teutonici, che nelle circostanze in cui l’ultimo uomo resta tale anche quando la squadra è in fase di ripartenza, cioè in compagini dalla marcata indole conservatrice, aggiungono l’aggettivo “spazzatore” alla qualifica di libero, per ben illustrare il progetto tattico di cui sopra.
Tornando al buon Kaiser, egli spesso si lasciava prendere la mano durante le interviste, bisogna riconoscerlo.
Herget è stato un bel giocatore, comunque.
Molto forte.
Il nostro nasce in Sassonia, una bella regione della Germania orientale, al tempo Germania Est.
A pochi chilometri si trova il confine con l’odierna Repubblica Ceca.
Nel 1955, quando viene alla luce, si chiama ancora Cecoslovacchia ed è proprio in quei giorni, col Patto di Varsavia, che iniziano a cambiare parecchi equilibri e scenari politici che porteranno più tardi a cambiamenti epocali, in Europa e non solo.
Matthias, come quasi tutti i bambini, è innamorato del pallone.
È un ragazzino sveglio, molto intelligente, che cresce dimostrandosi bravo sia a scuola che sui campi di calcio.
Una rarità, per certi versi.
A soli dieci anni viene inscritto nella scuola calcio RWW Bismarck, piccolo club di un quartiere di Gelsenkirchen, in Germania Ovest, dove la sua famiglia si è trasferita.
Successivamente ecco il passaggio nel SC Gelsenkirchen 07, campionato regionale.
Herget si mette subito in mostra, diventa titolare inamovibile per un triennio e sfiora l’ingresso nel calcio professionistico, perso per un soffio a causa del secondo posto in una classifica che premia solo la vincente.
Vorrebbe riprovocarci l’anno dopo, ma il destino ha in serbo per lui una promozione addirittura tripla: sbarca infatti in Bundesliga, nel massimo livello della piramide tedesca, firmando per il Bochum, che lo ha dapprima adocchiato e più tardi acquistato per un corrispettivo di circa 50.000 marchi.
Titolare, da battitore libero e, saltuariamente, da centromediano dinanzi alla difesa.
A poco più di vent’anni si destreggia con estrema autorevolezza e si merita la convocazione nella Nazionale Olimpica, oltre che nella Under 21 tedesca.
Il VfL Bochum si salva per il rotto della cuffia nel 1977, poi bissa il risultato nella stagione successiva, stavolta con qualche patema in meno.
Dopo il biennio in maglia bianco-blu per Herget giungono parecchie proposte di trasferimento.
La maggior parte da compagini di Bundesliga, naturalmente.
Un paio, invece, dalla seconda serie.
Una proviene dalla vicina Essen: l’ambizioso Rot-Weiss ha da poco sfiorato la promozione e vuole riprovarci.
Per riuscirci non bada a spese e mette su un team importante, un bel mix tra mestieranti della categoria e giovani rampanti.
Matthias accetta il declassamento in cambio di un buon ingaggio, della possibilità di non doversi allontanare troppo dagli affetti di famiglia e della prospettiva di ritrovare presto il calcio che conta.
Le cose andranno differentemente, in quanto nelle successivo quadriennio il RWE non riesce a centrare la risalita, andandoci vicino in una occasione e finendo parecchio distante dalla zona promozione nelle altre tre.
Nell’estate del 1982, dopo il Mondiale di Spagna, Matthias Herget decide di lasciare Essen.
Quasi centocinquanta presenze ed un ottimo bottino di una quarantina di reti, a corredo.
Per essere un difensore, niente male davvero.
Nel 1980 mette a segno una tripletta su rigore, in un match contro il Kiel.
Non era mai accaduto in precedenza e non accadrà nemmeno dopo, nella storia del calcio tedesco, che uno stesso calciatore riesca a realizzare tre reti su rigore durante la stessa gara.
Record a parte, risulta essere sempre tra i migliori in campo e la sua stessa società si rende conto che non ha più senso continuare a trattenerlo, limitandone oltremodo le prospettive di carriera.
Il difensore però resta in cadetteria e passa al Bayer Uerdingen, società di Krefeld, in Renania, col colosso farmaceutico presente nella denominazione che è pronto ad investire in maniera ingente per conquistare posizioni importanti nella graduatoria teutonica.
Il primo obiettivo è la promozione in Bundesliga 1 e nella da poco riformata seconda serie il BU si fa spazio tra parecchie compagini ben attrezzate, giungendo secondo e poi sconfiggendo lo Schalke 04 nello spareggio per la promozione, dove Herget è protagonista con un suo gol nell’andata (vittoria per 3-0) e con una sontuosa prestazione al ritorno (1-1).
In prima serie la società si stabilizza dapprima nel centro classifica, poi inizia ad avvinghiarsi ai piani alti.
Nel 1985 vince una epica Coppa di Germania battendo in finale in un memorabile match il fortissimo Bayern Monaco di Matthaus, Lerby ed Augenthaler, col mitico Lattek in panca.
Matthias Herget è il capitano e spetta a lui alzare la Coppa nel cielo di Berlino.
Il bravo tecnico Karl-Heinz Feldkamp ha plasmato un gruppo estremamente coeso, con alcune individualità di rilievo: l’autoritario portiere Vollack, il grintosissimo stopper Brinkmann, gli imprevedibili fratelli Funkel, il potente attaccante Schäfer, il forte stampellone islandese Guðmundsson.
E naturalmente quel libero distinto e carismatico, che gioca come un veterano.
Nell’ottica di rafforzare la rosa il Bayer ingaggia un altro islandese di forza e talento, Atli Eðvaldsson, ex Borussia Dortmund, prelevato dal Fortuna Dusselddorf dove ha giocato nelle ultime stagioni.
Il BU05 in Coppa delle Coppe arriva sino alle semifinali, fermandosi contro l’Atletico Madrid.
Nei quarti fa fuori la Dinamo Dresda in un confronto che entra nella storia del calcio tedesco.
“Il miracolo del Grotenburg”, dal nome dello stadio di Krefeld.
Una mistura folle di calcio, politica, mistero.
Un noir impregnato di adrenalina e schizofrenia che va in scena al ritorno, dopo che all’andata la Dinamo si era imposta in scioltezza per 2 reti a 0.
In Renania, al termine della prima frazione di gioco, il club della allora DDR conduce per 3-1.
Un massacro.
Ad essere disperati, oltre a giocatori e tifosi locali, sono i dirigenti della TV germanica.
Confidando in una gara equilibrata e resa caliente dallo scontro est-ovest, hanno puntato sulla partita in questione piuttosto che sulla match di Coppa dei Campioni tra il Bayern Monaco e l’Anderlecht, ben più equilibrato e, onestamente, ricco di qualità in campo.
Molti spettatori iniziano a sbadigliare nell’intervallo, pronti ad abbioccarsi sul divano nel secondo tempo.
Qualcuno, deluso, abbandona addirittura lo stadio in netto anticipo.
Nello spogliatoio del Bayer regna un silenzio irreale: lo spazza via proprio Herget, che da vero capitano ricorda ai compagni come certe figuracce restino impresse nella memoria collettiva per decenni.
Feldkamp, serafico ed astuto, pungola ulteriormente l’orgoglio dei suoi aggiungendo che, quantomeno, sarebbe il caso di non eccedere nel ridicolo.
Sammer, allenatore della Dinamo, ha invece altri problemi ai quali pensare: il figlio Matthias, futuro Pallone d’Oro, avverte un fastidio che lo costringe ad uscire dal terreno di gioco anzitempo.
Come se non bastasse pure il portiere Jakubowski è costretto ad abbandonare dopo un violento scontro con Wolfgang Funkel che gli costerà addirittura la fine della carriera, a causa di una spalla rotta.
Entra la sua riserva, Ramme, che fino a quel momento aveva disputato giusto un paio di amichevoli del giovedì.
Anche per lui la partita diventa una sorta di fine carriera, seppure per altri versi.
Infatti la Dinamo becca sei gol ed esce dalla competizione, tra l’esultanza dei responsabili della TV teutonica, con oltre diciotto milioni di tedeschi impazziti dinanzi al teleschermo a gustarsi la assurda ed imprevedibile rimonta.
Un anno prima, dopo aver battuto per 3-0 l’Austria Vienna in casa, la stessa Dinamo Dresda al ritorno ne aveva presi cinque (a zero) ed era uscita nei quarti, ancora in Coppa delle Coppe.
Un autentico dramma sportivo per loro, una incredibile impresa per gli avversari.
Novanta minuti entrati di diritto nel mito, con un dopo gara altrettanto movimentato dalla fuga di Frank Lippmann, attaccante del Dresda che sfida la Stasi e ripara ad Ovest, sparendo nella notte tra le immancabili accuse di combine e diserzione.
Gli andrà bene dal punto di vista umano, riuscendo a ricongiungersi con i suoi famigliari ed evitando ripercussioni che ad altri risulteranno fatali.
Come calciatore finirà nelle serie minori dopo una interminabile serie di infortuni, probabilmente figli delle innumerevoli maledizioni piovutegli sulla testa da est.
Storie di Calcio, quello vero.
In Bundesliga il Bayer Uerdingen è terzo: un risultato eccezionale, che però rappresenta il vertice di un percorso che nel triennio successivo rallenterà decisamente, con la squadra che andrà ad assestarsi nella parte mediana della graduatoria e senza produrre ulteriori mirabilie.
In questo arco di tempo Matthias Herget scrive pagine importanti della propria parabola sportiva anche con la maglia della gloriosa selezione nazionale, la Fußballnationalmannschaft tedesca.
Un quinquennio da protagonista, con una quarantina di presenze e quattro reti messe a referto, venendo convocato per il mondiale del 1986 in Messico, quando parte da riserva di Augenthaler ma, dopo l’infortunio di quest’ultimo, resta una seconda scelta, in quanto Franz Beckenbauer, che come detto lo apprezza tanto, si convince ad affidare a Ditmar Jakobs, più propenso a marcare, il compito di agire da ultimo uomo.
Una scelta dettata da equilibri di ordine tattico, fondamentalmente.
Una scelta che paga, quantomeno sino alla finale, dove Maradona viene parzialmente limitato dalla feroce marcatura di Matthaus e dall’asfissiante pressione esercitata in raddoppio dai mastini tedeschi.
Ma, nonostante questo, l’Argentina diventa comunque -e con merito- Campione del Mondo.
Matthias Herget nella finale non è nemmeno in panchina e in Messico gioca una sola partita, quella persa contro la Danimarca nel girone di qualificazione.
Proprio la gara che convince Kaiser Franz a modificare l’assetto difensivo dei suoi, già più abbottonato rispetto alle abitudini dei germanici.
La delusione è forte, per Herget.
Si è ritrovato fuori dai giochi e non è riuscito a sfruttare appieno quella che poteva essere l’occasione della vita, soprattutto dopo l’infortunio del summenzionato Augenthaler.
Il centrale del Bayern riuscirà a vincere il Mondiale, lui si, nel 1990 in Italia.
Herget non ci sarà, perché avrà da poco appeso gli scarpini al chiodo.
Non c’era nemmeno ai deludenti (per la Germania Ovest, s’intende) Europei del 1984, in Francia, quando l’allora commissario tecnico Derwall gli preferì nella lista dei convocati i pari ruolo Strack del Colonia e Bruns del Borussia Mönchengladbach, come riserve dell’inamovibile Stielike e col chiaro intento di non creare dualismi di alcun genere che potessero produrre pressioni indesiderate.
Nel 1988, agli Europei giocati in casa, Beckenbauer lo schiera invece da titolare.
Matthias ripaga la fiducia offrendo un ottimo rendimento, quantomeno sino alla semifinale con l’Olanda, allorquando è costretto ad abbandonare il terreno di gioco per un infortunio.
Si era ancora sullo 0-0, poi gli olandesi vinceranno per 2-1 ed andranno ad alzare il trofeo, dopo aver superato in finale l’Unione Sovietica.
Un triste epilogo, con il rimpianto di un torneo che avrebbe potuto cambiare il destino della bacheca del buon Matthias, perfetto nello blindare la propria difesa fino al momento dell’abbandono al penultimo atto.
Herget è stato senza dubbio uno dei migliori liberi del calcio tedesco degli anni 80.
Ha interpretato il ruolo con classe e forza fisica, abbinando una solidità difensiva di indubbio valore ad una ottima abilità nell’impostare il gioco e, non di rado, nell’andare a concludere l’azione.
Nella Bundesliga del periodo era tra i pochi a costruire dal basso, finendo per essere a tutti gli effetti un vero e proprio regista arretrato.
Nei manuali che trattano la materia viene indicato -a ragione, a mio parere- che per svolgere il ruolo di libero bisogna fondamentalmente possedere quattro caratteristiche basilari.
A: uno spiccato senso della posizione
B: la propensione a giocare d’anticipo sullo sviluppo del gioco
C: il saper prendere decisioni
D: il mantenere sempre alta la concentrazione
In pratica servono doti quali leadership, carisma, intelligenza tattica, personalità.
Matthias le possedeva tutte.
Nelle compagini ove ha militato è risultato essere un totem, capitano, guida ed aggregatore, sia in campo che fuori.
Tecnica da centrocampista, tirava bene punizioni e rigori.
Di testa se la cavava discretamente, così come nel tackle, mentre andava in difficoltà se preso in velocità, dove palesava alcuni limiti di tenuta.
Dopo l’Europeo del 1988 saluta la Nazionale e di lì a poco pure il KFC Uerdingen 05, accettando la corte dello Schalke 04.
A Gelsenkirchen disputa una ordinaria stagione in seconda serie.
I Minatori arrivano quinti e fuori dai giochi per la promozione: la conseguiranno dodici mesi più tardi, quando però Matthias Herget avrà già dato l’addio al calcio giocato, a 34 anni e mezzo, fermato da un fastidioso infortunio al tendine rotuleo.
Si chiude una parentesi di oltre una dozzina d’anni, una avventura importante al quale, come detto, è forse mancato un sigillo internazionale per definirla di assoluto livello, per quanto un secondo posto mondiale (1986) ed una semifinale ai campionati europei (1988) stiano lì a rappresentare la bontà dei risultati raggiunti da un calciatore di notevole bravura.
Oggi Matthias Herget vive ad Essen insieme alla moglie Claudia, ex giocatrice di pallamano.
Si occupa di settori giovanili, dopo aver allenato nelle categorie minori ed aver lavorato come dirigente in diverse società della propria zona di residenza.
Une delle sue figlie, Nadine, ha giocato a calcio per lungo tempo, sebbene il padre non fosse entusiasta della cosa, soprattutto agli inizi, per timore di infortuni.
L’altra erede, Annika, ha preferito dedicarsi al tennis ed alla recitazione.
Il boss della famiglia invece fa parte delle stelle dello Schalke 04 e, a 65 anni suonati, fa la sua bella figura, sul prato verde.
Elegante, combattivo, risoluto.
Uno degli ultimi liberi d’assalto.
Matthias Herget: l’autorevole.
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