- 1978
Il triangolo delle Bermude
Il cult per eccellenza.
Lo conosco letteralmente a memoria.
Il triangolo delle Bermude, lungometraggio del 1978, si inserisce nel filone del mistero, per così dire, andando a sfruttare quell’alone di suspense generatasi dal celebre e discusso libro di Charles Berlitz, The Bermuda Triangle, del 1974.
Presente nella mia biblioteca personale, s’intende.
Tra le molteplici opere che hanno affrontato la questione, questa del regista messicano René Cardona Jr., figlio e padre d’arte, è di certo la più divertente in assoluto.
Senza discussioni.
Specializzato in film d’exploitation e produzioni a basso costo, il buon Cardona in questa pellicola riesce ad inserire praticamente tutto il campionario disponibile: horror, fantascienza, avventura, thriller, catastrofico, fantastico, giallo e chi più ne ha più ne metta, con evidenti richiami ad opere di recente -ai tempi- fattura.
Vi sarebbe pure un latente intento documentaristico, in alcune scene.
Latente perché, chiariamolo subito, Il triangolo delle Bermude è un cult, ok, ma è anche un film non del tutto riuscito.
Difatti la presenza di un mostro sacro quale John Houston e quella di altri volti celebri (inclusa la brava Marina Vlady) non basta a giustificarne alcuni palesi passaggi a vuoto.
La trama, di per sé, non sarebbe manco malvagia.
Tutt’altro.
Il portale mymovies la presenta così:
“In compagnia della moglie e dei suoi quattro figli, l’anziano professor Edward viaggia per il Mar dei Sargassi preoccupato di completare uno studio di archeologia subacquea che dovrebbe coronare degnamente una lunga carriera dedicata alla scienza. A bordo dello yacht del capitano Britchs, ci sono anche il dottor Peter – ossessionato dai sensi di colpa derivanti da una diagnosi sbagliata -, la sua volubile moglie Sybil e il personale di servizio che riunisce esperti marinai. Giunti in prossimità del Triangolo delle Bermude, il viaggio si trasforma in un incubo. Le strumentazioni della cabina di comando vanno in tilt; la radio trasmette drammatici bollettini che raccontano di aerei precipitati e di imbarcazioni affondate; e l’avvistamento di una bambola affiorante dall’acqua diffonde una ineluttabile sensazione di morte imminente tra l’equipaggio. Edward continua stoicamente il proprio lavoro fino a scoprire i resti di una città sommersa, ma una terribile tempesta chiude in una morsa mortale lo yacth risucchiandolo negli abissi.”
Le riprese marine sono discrete, il cast -nel quale compare una Gloria Guida modello bambolina stupidotta, sensuale quanto intorpidita- se la cava con mestiere, l’ambientazione è oltremodo intrigante e l’argomento di fondo, sebbene decisamente fantasioso (nel famigerato Triangolo delle Bermude non accade nulla di particolarmente strambo rispetto a ciò che si verifica in altri luoghi del pianeta, anche se quel geniaccio malefico di Berlitz è riuscito ad instillare il dubbio che così non sia in almeno 3/4 della popolazione mondiale), stimola interesse e, per l’appunto, suggestione.
Quel che però qui manca, direi pure clamorosamente, è un filo logico.
Il film fa un mischione devastante -e intrigante, bisogna ammetterlo- di troppi elementi, spesso disconnessi tra loro.
Atlantide, ufologia, magia, mistero.
Poi alla fine a produrre guai in serie e generare il male autentico è una innocua bambola recuperata in mare e che, con la sua forza diabolica e dirompente, porterà il barcone e la sua popolazione alla immane sciagura.
La stessa bambola è rimasta nell’immaginario collettivo di chiunque abbia visto il film, eh.
Nessuno, dicasi nessuno, può averla dimenticata.
La bambina che la possiede, dopo averla recuperata nelle acque dell’oceano, è altrettanto diabolica nello sguardo e nei comportamenti.
Un’accoppiata apparentemente demenziale, ma che si rivela alquanto mefistofelica.
Il ritmo, a tratti fastidiosamente lento, trova un alleato negli interni dell’imbarcazione.
L’idea di essere tutti lì, in un ambiente ristretto e con una cappa di follia che pervade i protagonisti ed impregna lo stesso natante (meravigliosamente trash i quadri appesi alle pareti -ispirati ai naufragi e alle catastrofi di ogni genere, che nessuna ciurma oserebbe mai sognarsi di portare seco, non fosse altro che per ragioni di scaramanzia- rappresentano un’ulteriore perla di psicopatia cinematografica), rende bene l’idea della claustrofobia fisica e dell’angoscia imperante nel bel mezzo di acque misteriose e sinistre.
Alla fine, pur con i suoi evidenti limiti, la pellicola finisce con l’entrare nell’immaginario collettivo e, soprattutto, penetra i sensi dello spettatore, finendo per essere -ribadisco- un cult.
Ogni tanto compiano anche alcune radio, che per un Radioamatore sono sempre un bel vedere.
Quasi come il culo della Guida, ecco.
I dialoghi sono per la maggior parte dei casi rivedibili, quando non proprio imbarazzanti.
Lì si sarebbe dovuto far meglio, assolutamente.
La produzione italo-messicana annaspa, in alcuni frangenti, e lo stesso regista ci mette il carico, probabilmente distratto da qualche birrone che passa nei dintorni.
Azzeccatissime, invece, le musiche di Stelvio Cipriani.
Non voglio spoilerare, ma bello un omaggio al maestro dei maestri, Hitchcock.
Sfizioso pure il rapporto odio-amore tra gli zii della bambina luciferina: Sybyl (interpretata dall’ex bondgirl Claudine Auger) e Peter (Carlos East).
La bambola, quando assume sembianze umane, è impersonata da Nailea Novind che, crescendo, manterrà un certo fascino inquietante/conturbante.
Il capitano Mark (Hugo Stiglitz) è una figura carismatica e aderente alla causa, con la sua raffinata pipa, il suo piglio professionale e razionale ed il suo fiducioso coraggio da marittimo della vecchia scuola.
Al contrario del succitato rapporto tra gli zii, quello pseudo-sentimentale tra il belloccio mozzo Alan (Andrés García) e la provocante Michelle (Gloria Guida) è piuttosto l’antitesi del gioco della conquista, il vademecum dell’anti-corteggiamento, “la sintesi della disgrazia, l’apice dell’apoteosi della schifezza” (cit. Cecco-Abatantuono).
Il mini piroscafo è carinissimo, invece.
Insomma: alti e bassi.
D’altronde siamo in mare.
E che mare!
Cult, per eccellenza.
A modo suo, sì.
Ma pur sempre un cult.
Tecnicamente da 4,5 a voler mostrarsi generosi.
Emozionalmente tocca salire parecchio con la valutazione, secondo me.
E sarebbe ipocrita negarlo.
Perché “non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace”.
Il triangolo delle Bermude: 7
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