• 1970

Il tagliagole

Chabrol.
Francia.
Anni 70.


Si vola già parecchio in alto.

Hélène è una convinta disillusa.
Delusa in passato da un annientante sentimento mal riposto, ormai si spende soltanto come insegnante e direttrice della locale scuola elementare, dove brilla per indole e per mestiere.
Popaul è un macellaio per tradizione di famiglia e professione, apparentemente allegrotto ma in realtà mentalmente devastato dopo aver conosciuto la guerra da vicino.
Troppo da vicino.

Due mondi distanti e contrapposti che s’incontrano a un avvinazzato matrimonio di contrada e si incamminano mano nella mano in un morboso viaggio/rapporto dai contorni indefinibili.


Ne scaturisce un thriller psicologico senza spargimenti di sangue ed indagini ridondanti, bensì pregno di richiami ad Hitchcock ed al suo inarrivabile cinema carico di suspense, tensione, sospetto, timore.

Una suadente Stéphane Audran seduce senza mostrare, un pregevole Jean Yanne appassiona in un ruolo contorto e teoricamente orripilante.

Lei è riluttante, lui compulsivo.
Insieme mettono a repentaglio qualsivoglia sicurezza sulla stabilità di coppia e sulla teoria dell’amore, oltre che dell’amicizia.
O piuttosto della complicità, che quando è autentica spariglia tutte le carte del globo e mette in second’ordine sia l’uno che l’altra.

Se poi tutto questo meraviglioso bordello emotivo ha luogo nella classica campagna del classico paesino della classica provincia della classica Francia, ecco che nel nostro adorato regista si scatena il classico mostro (di bravura).

Difatti Chabrol tratteggia con impareggiabile sapienza i lineamenti di un microcosmo detestabile eppure ammaliante e, soprattutto, reale, esistente, tangibile.
Lo fa con l’eleganza del fuoriclasse e con uno stile felino, tagliente e graffiante, marchio di fabbrica della sua arte provocatoria e stuzzicante.

Il tagliagole

Squilibrato, inquietante e al tempo stesso delicato, Il tagliagole è opera omnia.
Un film che racchiude e sviluppa parecchi scomodi temi di complicatissima interpretazione.
E lo fa con garbo ed interiorità, seppur con lo spietato cinismo tanto caro al cineasta parigino.

Trémolat, un impercettibile borgo situato nella bella Dordogna, sud-ovest di Francia, ospita gli accadimenti con la noncuranza che è d’uopo, a rigor di trama.
Alcune scene sono state girate nelle celebri Grotte di Cougnac, non distanti dal luogo in oggetto.

Lo scenario è, come sempre, splendido protagonista.

La dicotomia tra il bene e il male viene completamente annullata dall’andatura malinconica e romantica del lavoro.
In men che non si dica il thriller si metamorfosizza in un melodramma a tinte oscure ove brilla la luce alienata di lei, molto conturbante nel suo incidere inquieto, amato figlio illegittimo di un turbamento che l’istinto vorrebbe dapprima sopprimere, poi avvinghiare e possedere, infine dominare.
Il serial killer, schizoide ed Incontrollabile a causa del suo infausto vissuto, finisce col soccombere ed essere mero strumento di rivalsa contro il crudele destino sentimentale, oltre che simbolo di rinascita per una psicotica ed imprevedibile donzella sino ad allora resa glaciale ed indifferente nei confronti del contatto umano.


Una donna indipendente e misurata, che vorrebbe osare ma che esita, trafitta dal fato e rallentata dal suo istinto.
Una donna che ha cervello ma che non sempre ha voglia di usarlo.
Una donna forse innamorata, che per amore ha sofferto e che per amore potrebbe sacrificare ogni compromesso che -a fatica, e quanta!- si è imposta dopo un lunghissimo e profondo penare.
Una donna per certi versi “reineckeriana” (Chabrol, anni più tardi, citerà l’Ispettore Derrick nel suo Grazie per la cioccolata).
Una donna, probabilmente, più folle del suo connivente.
Una donna che è strepitosa metafora dell’essere e dell’apparire, che si ribella alla comfort zone e sfancula con inaudita ferocia e con malato coraggio ogni convenzione forzata, in primis dentro se stessa.
Una donna che, alla fine, vince perdendo.
Una Donna.


Il resto, da vedere più che da raccontare, è tutto spettacolarmente congiunto a questa allucinata sinapsi amorosa mai esplicata con chiarezza e per questo ancor più coinvolgente.

Bellissimo.

L’amicizia, la passione, la confidenza, la paura, il coraggio, il dubbio, il non detto, la follia, la complicità.
Se non è un film sull’amore questo, allora l’amore non esiste.
E manco il cinema.

Bellissimo.

Con un solo appunto: campanilistico, maligno ed insignificante.
Non me ne vogliano gli amici capresi, che adoro, ma se Chabrol ed il suo fido Pierre Jansen -che ha curato la colonna sonora- avessero inserito nella scena iniziale uno dei tanti brani dedicati alla mia Ischia anziché la comunque sfiziosa Capri petite île di Dominique Zardi, beh, la torta avrebbe sfoggiato una ciliegina ancor più da primato.

Bellissimo.

Comunque.
Anche così.


Evviva la Francia.
Evviva Ischia, Capri e pure Procida.
Evviva Chabrol.
E sempre grazie, Maestro!

Il tagliagole: 9

V74

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