- 1973
Il rompiballe
Domani, dopo una vita, torno al Cinema.
In sala, intendo.
Dapprima il Covid, poi la collezione primavera/estate dei film di cassetta e delle infinite saghe che manco se mi pagano.
Si tratta di una commedia francese, con buone aspettative: quindi sarà una chiavica, di sicuro.
Il cinema francese, beh, mi piace parecchio.
Idem la Francia.
I francesi anche, a parte che per il calcio, la politica ed altre centocinquantamila quisquilie.
Per festeggiare questo piccolo evento mi sono regalato la miliardesima visione di una delle più divertenti commedie transalpine di sempre: “Il rompiballe”.
O per dirla in lingua originale, “L’emmerdeur” (Il piantagrane. Che avevate pensato?).
1973.
Regia di Édouard Molinaro (Il Vizietto), uno dei pochi film-maker che in quel periodo non si dedicò alla nouvelle vague, che tanta passione ed attenzione mediatica generò in tutta l’epoca contemporanea -e non solo-, ma preferì concentrarsi sull’arte popolare e su uno stile ironico e scaltro, in grado anche di proporre un modello legato al da lui adorato teatro e, nel contempo, con sfumature che fossero adattabili pure ai tempi televisivi, che secondo Molinaro erano da tenere comunque in considerazione datosi che vi era un pubblico a casa, oltre a quello in sala.
Altri tempi, diverse dinamiche sociali e, direi, tecniche.
A proposito di tecnicismi, per me la regia di Molinaro è una delle chiavi vincenti dell’opera.
Una regia intrisa di dinamicità, fluidità, scorrevolezza.
I succitati tempi sono quelli che fanno la differenza, nella visione.
Unitamente ad un cast semplicemente perfetto.
Non è presente Louis de Funès, che da pochi anni era entrato nelle grazie del regista per quel che concerne il cinema di genere, ma ci sono altri due attori che lui apprezza e che, nel novero di un bel gruppo di straordinari interpreti che avrà modo di dirigere durante la sua carriera (oltre a Tognazzi e Serrault, anche gente come Auteuil, Luchini, Piccoli ed altri ancora), rappresentano la chiave di volta del film: Jacques Brel e Lino Ventura.
Una coppia a dir poco c l a m o r o s a!
La storia vive sul divertentissimo soggetto dell’ottimo Francis Veber (regista de La capra, Due fuggitivi e mezzo, La cena dei cretini, L’apparenza inganna), che cura anche la sceneggiatura e che ne girerà pure un remake, nel 2008.
Un altro remake sarà messo in scena negli USA da Billy Wilder, con Jack Lemmon e Walter Matthau a duellare sul grande schermo.
La trama è semplice: un killer cinico e meticoloso deve compiere un delitto, ma trova sulla sua strada uno scompaginato rappresentante di camicie cornuto ed intenzionato a riconquistare ad ogni costo l’amata.
Il secondo scombinerà totalmente i piani del primo, finendo per trovare più attraente la compagnia di un amico strano che quella di una moglie frivola.
Due solitudini che si incontrano e che, volente o nolente, si intersecano indissolubilmente.
In mezzo una marea di equivoci, tantissima allegria, molto ritmo e tutta una serie di gag spassosissime recitate da personaggi in gran forma e posizionati alla perfezione all’interno di un mosaico scenico a dir poco perfetto.
Ventura è divino nell’interpretare la serietà di un professionista del crimine e, contemporaneamente, nel trasmettere quel senso di inquietudine nell’essere messo a dura prova, soprattutto a livello nervoso, da un insopportabile antagonista magistralmente raccontato da un Brel clamorosamente invadente, stupendamente insopportabile e divinamente scassacazzi.
W gli avverbi.
Nino Castelnuovo regala un altro pizzico di tricolore alla sagra, nei panni di un fattorino d’albergo ficcanaso e tagliente.
Anche gli altri personaggi, di contorno o meno che siano, si rivelano all’altezza del duo principale.
Musiche sfiziosissime, ovviamente di Brel -all’inizio del film il regista si lancia in un cameo nel quale è un barista che durante una schermaglia verbale tra il killer ed un camionista, entrambi in quel momento casuali avventori del bar, mette su un disco proprio di Brel- e dei suoi stretti collaboratori Rauber ed Azzola.
Lino Ventura si conferma uno dei miei attori preferiti di sempre.
Eclettico, preparato, camaleontico, costantemente nel personaggio: una maschera autoironica capace di sguardi monumentali e movimenti imprevedibili, indice di una capacità attoriale veramente sublime.
Jacques Brel è lui, istrionico e malinconico come pochi altri, pure in un film comico e leggero.
Due fenomeni, ben diretti ed incastonati con bravura in un soggetto estremamente vivace che, in alcuni frangenti, non manca di spruzzare del malefico sarcasmo all’indirizzo di un certo tipo di psichiatria e -in particolare- sulle fin troppo solide certezze di quest’ultima.
Una Francia anni 70, colorata e campagnola, fa da sfondo alle bizzarre vicende di cui sopra.
Siamo a sud, per la cronaca: precisamente a Montpellier e dintorni, sul Mediterraneo.
Quando c’è bisogno di un sano momento di buonumore, “Il rompiballe” non tradisce mai.
Chi ama gli anni 70 ed un certo retrogusto grottesco eppur aggraziato, potrà alleviare le rotture di maroni del pianeta sfruttando, a propria volta, un rompiballe di professione ed il suo irresistibile compare.
Il rompiballe: 8
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