- Il Maradona dell’Est
Dragan Stojković
Da troppo tempo -troppo!- si parla di Covid.
In continuazione.
Non potrebbe essere altrimenti, ci mancherebbe.
Ma non è certo il massimo dell’allegria, purtroppo.
Volendo provare a svagarsi col Calcio, ecco che l’argomento del periodo è la telenovela tra Icardi e la sua abbondante consorte, Wanda Nara.
Con amante inclusa, naturalmente.
Letame.
Autentico letame.
Come andare oltre e, nel contempo, continuare ad amare questa meravigliosa magia che è il Pallone?
Semplice: con la macchina del tempo.
Uno dei più forti calciatori degli anni 80 e 90, un talento straordinario al quale la Natura ha montato una testa alquanto intelligente ed ha donato un carattere indubbiamente bizzarro: lui, Dragan Stojković.
Un assemblato oltremodo intrigante, con il certificato di provenienza che ne attesta ulteriormente lo status di genio e sregolatezza: jugoslavo.
E come ti sbagli?
Niš, odierna Serbia, antica città dei Balcani impregnata di storia e considerata da sempre una delle porte che connettono l’Oriente con l’Occidente.
Qui, a metà degli anni sessanta, viene al mondo un bel batuffolo al quale viene dato il nome di Dragan.
Venticinque anni più tardi il mondo si accorgerà di lui, durante il Mondiale di Italia 90.
Chi segue il Calcio con maggiore attenzione già lo conosce da un bel po’, comunque.
Difatti Dragan Stojković si affaccia giovanissimo sul palcoscenico della pelota.
Sin da bambino pensa solo a rincorrere una sfera.
Ovunque ne rotoli una, lui è lì.
Immancabile.
A patto che non stia iniziando a far buio: in quel caso non è la poca luce a frenarne l’enfasi, bensì la tv.
Pixie, Dixie e Mr. Jinks, una sfiziosissima serie televisiva con protagonisti due simpatici topolini ed un buffo gatto, è un appuntamento imperdibile, per il ragazzino.
Ed il soprannome Piksi che gli amici di giochi coniano per lui ne fotografa la viscerale passione per il cartone animato di cui sopra.
Dragan non è alto e neanche possente, ma esprime uno scatto irresistibile e vanta una tecnica notevole per la sua età.
Poco prima di compiere quattordici anni entra nelle giovanili del FK Radnički Niš, dalle parti di casa sua.
Brucia le tappe, perché ha stoffa ed è determinato.
Gioca sotto età nelle varie rappresentative del settore giovanile e viene prestato per alcuni importanti tornei juniores al Partizan di Belgrado, fin quando a 17 anni esordisce in prima squadra nel suo Radnicki, che durante i primi anni ottanta vive una fase di notevole splendore, ottenendo risultati, fino ad allora, impronosticabili.
Proprio nel 1980 l’FK partecipa infatti per la prima volta nella propria storia ad una competizione europea e solo un biennio più tardi riesce a raggiungere addirittura le semifinali della Coppa Uefa eliminando compagini quali Napoli, Grasshoppers, Feyenoord e Dundee United, prima di essere a sua volta estromesso dalla competizione per mano del forte Amburgo, che poi si arrenderà in finale agli svedesi del Goteborg, guidati da un allora emergente Sven-Göran Eriksson.
Il caldo ambiente che il pubblico è in grado di creare nel proprio stadio è il segreto per un exploit che proietta il club verso dimensioni sino ad allora inesplorate, eccezion fatta per la vittoria in Coppa dei Balcani di un quinquennio prima.
Anche in campionato la squadra veleggia in posizioni di rilievo ed in Europa per due volte raggiunge gli ottavi della succitata Coppa Uefa.
Dragan Stojković si fa spazio rapidamente nel calcio che conta.
Nella Coppa Uefa del 1982 raccoglie solamente una convocazione per la gara del San Paolo contro il Napoli, ove peraltro non viene impiegato.
Poi, man mano, entra nel novero dei titolari.
In campionato si mette in mostra in parecchie gare, risultando come uno dei prospetti migliori del calcio jugoslavo.
Partecipa alle Olimpiadi di Los Angeles (1984) contribuendo all’ottenimento di un buon terzo posto, dopo aver perso nei tempi supplementari la semifinale con i futuri campioni della Francia ed aver successivamente battuto l’Italia nella finale di consolazione.
L’esito bissa il terzo posto, in questo caso a pari merito, ottenuto dagli slavi nel Campionato Europeo Under 21, disputatosi pochi mesi prima e vinto dall’Inghilterra.
Dragan non è titolare fisso, ma è nel gruppo dei protagonisti.
E per non farsi mancare nulla è convocato pure agli Europei di Francia poco dopo, quelli dei “grandi”, allorquando segna un gol su rigore contro la Francia di Platini ma non può evitare la sconfitta dei suoi (2-3) e tantomeno un torneo deludente della sua squadra, che si conclude con l’eliminazione al primo turno.
Il tecnico Veselinović -cognome da regista porno ma allenatore preparato, per quanto esonerato al termine della kermesse continentale e sfortunato in una successiva e fugace esperienza nella nostra penisola in quel di Catanzaro- ne certifica le qualità, inserendo Dragan in Nazionale ad appena diciotto anni.
Il tecnico federale non è il solo ad apprezzare le caratteristiche del prospetto di Niš.
Le migliori società del paese si interessano al suo cartellino con l’intento di sfruttare la possibilità di tesserarlo senza esborsi eccessivi, a causa delle leggi interne che negli anni ottanta limitano gli spostamenti dei giovani slavi verso l’estero.
Il Radnički tiene duro e lo fa anche dopo una sorprendente retrocessione in cui incappa nel 1985.
Dragan Stojković resta pure in seconda serie, contribuisce alla rapida risalita del team nel primo livello del calcio jugoslavo e poi, come da accordi, viene finalmente messo sul mercato.
Il Partizan Belgrado -memore delle avventure giovanili del fantasista ed appena campione nazionale al termine di una stagione impregnata di polemiche e veleni- sembra favorito per accaparrarsene i servigi, ma a sorpresa a spuntarla sono i cugini della Stella Rossa, secondi in graduatoria per la differenza reti ed ancora imbufaliti per l’esito del torneo precedente.
Dragan si trasferisce a Belgrado e segna 17 reti in campionato, nella prima stagione che la sua squadra chiude al terzo posto.
Nella seconda invece mette a referto 15 gol e vince il campionato.
Un secondo posto nel 1989, poi due vittorie consecutive nel campionato jugoslavo che trascinano la Stella Rossa sul trono locale, ma non solo.
Perché nel 1991 la compagine slava, unica nella storia del paese a riuscirci, alza al cielo la Coppa dei Campioni.
Un successo clamoroso, ottenuto mediante una intelligente ed accorta organizzazione che, man mano, ha permesso agli slavi di costruire una compagine di assoluto rispetto: Jugovic, Savicevic, Prosinecki, Mijajlovic, Belodedici, Pancev e altri ancora, a sugellare una politica societaria estremamente produttiva.
E Dragan Stojkovic?
Lui è seduto in panchina, a Bari, nello Stadio San Nicola, ove va in scena il match tra la Stella Rossa ed il Marsiglia: la finale della Coppa dei Campioni del 1991, per l’appunto.
Ma è tra le riserve del Marsiglia, non tra quelle degli odierni serbi.
Incredibile ma vero: una proposta di oltre 11 miliardi delle vecchie lire ed i francesi acquistano il calciatore dopo che il genialoide presidente Tapie se ne è innamorato osservandone le gesta contro il Milan, nell’edizione della Coppa dei Campioni di un paio di anni prima, vinta dai rossoneri quasi in scioltezza, eccezion fatta per un ottavo soffertissimo contro la Stella Rossa trascinata dal suo fuoriclasse in stato di grazia ed in gol sia all’andata che al ritorno, quando solo ai rigori il team meneghino riesce ad avere la meglio sugli avversari.
La gara di Belgrado viene sospesa per scarsa visibilità.
Il Milan è sotto per una rete a zero ed è in dieci uomini, per l’espulsione di Virdis.
La nebbia salva i rossoneri da una ormai certa eliminazione.
Nella ripetizione del giorno dopo il team di Sacchi riesce ad avere la meglio nella lotteria dagli undici metri, andando ad iniziare un percorso di gloria che sfocerà in una lunghissima serie di trionfi internazionali.
Un autentica sliding doors, talvolta imprescindibile, nello sport come nella vita.
Il fantasista si ritrova quindi in Provenza, al centro di un progetto tecnico di ottima fattura con la responsabilità della guida tecnica affidata al belga Goethals ed al suo vice, il transalpino Jean Fernandez, con l’ingombrante presenza del Kaiser Beckenbauer ad occuparsi della gestione societaria coadiuvato dal connazionale Osieck e con l’ex commissario tecnico della nazionale francese Campione d’Europa nel 1984, Hidalgo, che cura le relazioni esterne.
Un esercito di competenti generali che origina un vortice di dibattiti e tensioni interne ma che, sebbene in un clima alquanto “elettrico”, conduce il gruppo alla vittoria del campionato, al raggiungimento della finale di Coppa di Francia (persa contro il Monaco, all’ultimo minuto di gioco) e, come detto, dell’atto conclusivo della Coppa dei Campioni.
Nella finale di Bari il buon Dragan -non al meglio- inizia dalla panchina.
Il Pallone d’Oro Papin agisce da boa centrale, con alle spalle l’inglese Waddle ed il ghanese Abedi Pelé.
Gara abbastanza noiosa, che si decide alla lotteria dei rigori.
Vince la Stella Rossa, sì, con Dragan Stojković che mette piede sul terreno di gioco nel secondo tempo supplementare e che, da buon ex, rifiuta di calciare il suo rigore.
I francesi vorrebbero impiccarlo seduta stante, sul terreno di gioco, ma lui spiazza tutti con insindacabile sincerità:
“Non ho tirato il mio calcio di rigore, è vero. Ma se da jugoslavo lo sbaglio, i marsigliesi mi uccidono in campo. E se segno, non potrò mai più ritornare al mio Paese“.
Non fa una piega, in effetti.
Un’annata deludente, quella del fuoriclasse jugoslavo in terra francese.
Poche presenze, un infortunio dietro l’altro, la concorrenza di Vercruysse e Waddle, una discontinuità abbacinante per chiunque ne osservi le gesta.
A fine stagione, con la delusione del trofeo continentale più importante appena sfumato anche per il rifiuto di cui sopra, Goethals viene sostituito da Tomislav Ivić.
Quest’ultimo spiega al vulcanico presidente Tapie che da slavo ben conosce le doti di Dragan Stojkovic: quelle positive e, ancor di più, quelle negative.
Goethals lo aveva definito tecnicamente straordinario, ma totalmente anarchico dal punto di vista tattico.
Ivić restringe ulteriormente il concetto: inaffidabile.
Il fantasista finisce quindi sul mercato e sbarca in Italia.
Lo compra, con un affascinante coup de théâtre, il Verona appena tornato in serie A.
Gli scaligeri, allenati da Fascetti, hanno tra le mani il cartellino di un certo Batistuta, giovanissimo ma già in rampa di lancio.
Il tedesco Brehme è l’innesto prescelto dal tecnico per apportare esperienza e carisma alla squadra.
Il presidente Mazza, il più giovane massimo dirigente del campionato, ha voglia di stupire e punta lo sconfinato talento di Dragan Stojkovic.
Lo ha visto nel suo stadio, con la maglia della Nazionale, ai Mondiali del 90.
E lo vuole in gialloblù.
Un assegno di circa dieci miliardi al Marsiglia ed un ricco triennale al giocatore: la trattativa dura una vita, fin quando si chiude positivamente con alcune clausole a protezione dell’affare, dato che Dragan risulta ancora infortunato, quando giunge in Veneto.
Nel frattempo Brehme rifiuta il trasferimento, mentre i soldi per Batistuta scarseggiano, quindi viene ingaggiato il romeno Raducioiu, preso dal Bari.
Non è propriamente la stessa cosa, rispetto all’argentino.
Ad occhio e croce passeranno almeno una trentina di categorie, tra i due.
La rosa è modesta, nonostante alcune discrete individualità.
Fascetti salta a marzo e viene sostituito da Nils Liedholm, con Mario Corso a dargli manforte.
Non basta per salvarsi da una retrocessione rumorosa e, per certi versi, sorprendente.
Difatti il Verona edizione 1991/92 è considerata dagli addetti ai lavori come una buona compagine, pronta per una tranquilla salvezza e, mai dire mai, forse anche in grado di tornare ai fasti di un tempo, quelli in cui era spesso la mina vagante del torneo, pur non potendo di certo aspirare al trionfo scudettato del passato decennio.
Invece niente di tutto questo: Dragan Stojković arriva da sinistrato permanente e, come se non bastasse, quando danza sul prato verde combina più casini di quelli che riuscirebbe a fare se decidesse di fumarsela, l’erbetta di gioco.
L’inizio è cinematografico: presentazione in grande stile al Bentegodi, con le classiche promesse di rito ed una marea di entusiasmo.
Poi, alla prima amichevole di un certo spessore, ecco sei giornate di squalifica per aver strattonato l’arbitro ed avergli rinfacciato i tre quarti dell’albero genealogico della sua famiglia.
Partenza col botto, eh.
La squalifica viene ridotta successivamente a quattro giornate di gara, con Dragan che nel frattempo regala spettacolo in Coppa Italia.
Esordisce in campionato qualche settimana più tardi e non riesce ad incidere: rari sprazzi di classe infinita incastonati in una lunga collezione di match dove lo jugoslavo si mostra apatico, poco ispirato, troppo altalenante per un torneo tosto agonisticamente e di elevatissimo livello come quello italiano dell’epoca.
Mette in fila una ventina di gare, sbaglia diversi rigori (addirittura due nella stessa partita, contro la Cremonese) e tende ad estraniarsi dalla lotta.
La società, pur disponendo di contratti in essere che lo permetterebbero, decide di non tagliarlo, in quanto per i tifosi è un vero e proprio idolo.
Il rendimento è palesemente inficiato da una preparazione svolta con problematiche atletiche mai del tutto sanate, da una cartilagine del ginocchio che fa le bizze un giorno sì e l’altro pure e da una delicatezza muscolare che sfocia in una fragilità ormai irrecuperabile, quantomeno in alta quota.
Prescindendo da tutto ciò, perché al cuor non si comanda, tutta Verona, sebbene debba soffrire una bruciante retrocessione, s’innamora follemente di Dragan Stojkovic.
Un amore corrisposto, bisogna dirlo: il giocatore adora la città, apprezza l’ambiente, si trova da Dio in Italia.
Ma il suo stipendio monstre non è da serie B e tutte le squadre che avevano messo gli occhi su di lui, dopo aver visto l’andazzo di stagione, fanno un passo indietro.
Soprattutto il Milan, che ne aveva ammirato le gesta dal vivo pochi anni or sono e ci aveva fatto un pensierino su.
Berlusconi, competente e appassionato, si era convinto che un giocatore in grado di mettere in enorme difficoltà Ancelotti e Rijkaard, agendo tra le linee, e capace di dribblare Maldini e Baresi con una naturalezza assurda, dovesse per forza di cosa rappresentare un di più nella costruzione di una rosa vincente.
La sfortunata annata di Verona consacra Stojkovic come un flop e rispedisce al mittente tutti i sogni di gloria.
La sua carriera di club, quantomeno al top, termina qui.
Ed è un peccato.
Enorme.
Perché parliamo di un elemento dotatissimo, dal punto di vista tecnico.
In una generazione di fenomeni -con una Jugoslavia che avrebbe potuto competere per trofei di sublime caratura se non fossero subentrate le solite ed immancabili problematiche che porteranno poi a periodi di inspiegabile ed ignobile disumanità- Dragan ruba l’occhio per le doti balistiche, i lunghi lanci millimetrici, le punizioni calciate come fossero pennellate d’autore, i dribbling ubriacanti, le finte di corpo che mandano al bar i suoi avversari, i corridoi letteralmente inventati dal nulla ove far scorrere la sfera a favore dei cannonieri di turno.
Genio e sregolatezza, un classico intramontabile.
Quando ha voglia, è assolutamente immarcabile.
Quando non ne ha -e capita spesso, altroché- è deleterio, in quanto non soltanto risulta essere trasparente, quanto pure sdegnoso in una maniera che innervosisce staff tecnico, compagni, dirigenti e tifosi.
Questi ultimi, per la verità, tendono comunque ad adorarlo, prescindendo dai momenti di tensione che il campione slavo finisce, prima o poi, per generare.
La sua infinita classe è un biglietto da visita che colpisce nel segno: si fa desiderare come una stupenda donna che fa le bizze ma che, per merito delle sue grazie, riesce sempre a conturbare le anime di coloro che si approcciano a cotanta beltà.
Tira bene anche i rigori, ma non di rado lo fa con eccessiva padronanza dei propri mezzi, sbagliandone diversi di colossale importanza.
Il fisico è adeguato in termini di movenze e stazza, ma ad un certo punto inizia a mostrare crepe che minano la solidità atletica e psicologica di Dragan, delimitandone parecchio le potenzialità.
Lui ha grinta e personalità da vendere, ma pure un ego smisurato che lo tradirà in svariate occasioni.
La Coppa dei Campioni la mette ugualmente in bacheca, nel 1993.
L’ OM batte il Milan, in finale, ed alza al cielo il più importante trofeo continentale per club.
Stojkovic è però un figurante.
Tornato in Francia dopo le delusioni veronesi, non trova squadre che vogliano puntare su di lui.
Resta a Marsiglia, in rosa, con Goethals (nuovamente al comando della panchina marsigliese) che non si fida più di lui e lo utilizza col contagocce, sia per ragioni di ordine tattico, sia per gli ormai innumerevoli infortuni che ne contraddistinguono l’incedere.
I due campionati francesi vinti da comparsa, il secondo dei quali successivamente revocato per il noto Affaire VA-OM, lo scandalo seguito alla gara col Valenciennes, sono brodini che non possono saziare un fuoriclasse come lo jugoslavo, tristemente avviato sul viale del tramonto.
“Sei lì a preparare una gara, con tutte le dovute accortezze del caso e le indicazioni da trasmettere ai giocatori.
Parli per ore, spieghi, illustri, provi a motivare.
Poi entri in campo e Dragan Stojković fa quello che gli pare, fregandosene altamente di tutto il resto.
Talvolta va bene, spesso invece no.
Grandissimo giocatore, purtroppo altalenante ed inaffidabile“.
Questo è il pensiero del trainer belga.
Condivisibile, volente o nolente.
D’altro canto siamo nell’élite del Calcio e funziona così.
Assolutamente.
In realtà Dragan continua a dar spettacolo ed infiammare le platee per altre sette stagioni, vincendo pure diversi trofei.
Lo fa in Giappone, questo sì.
Addio all’élite del Calcio, per capirci.
Il Marsiglia viene retrocesso per illecito sportivo e lui riceve una economicamente allettante proposta dal Nagoya Grampus, che ha già ingaggiato il bomber inglese Lineker.
Non ci pensa troppo su e si unisce ad altri campioni che hanno deciso di monetizzare gli ultimi spiccioli di carriera esibendosi in un palcoscenico modesto ma voglioso di scalare posizioni nella graduatoria del calcio mondiale.
Nel Paese del Sol Levante Dragan trascina le folle, alza un paio di Coppe dell’Imperatore e sforna emozioni a profusione, entrando nei cuori del popolo nipponico e conquistando il titolo di miglior calciatore del secolo da quelle parti.
Un Divo.
Non abbandona la Nazionale, arrivando a mettere in cascina oltre ottanta presenze condite da una quindicina di reti.
Il picco ad Italia 90: sbaglia il suo rigore agli ottavi, contro l’Argentina, ma gioca un torneo perfetto che gli vale l’inserimento nella squadra ideale della kermesse: accanto a lui, a centrocampo, ci sono Gascoigne, Matthaus e Maradona.
Hai detto cotica.
Prese parte pure al Mondiale del 1998 e all’Europeo del 2000 con la casacca di quella che ai tempi era la Repubblica Federale Jugoslava.
Numero 10 e fascia di capitano al braccio, senza riuscire ad incidere più di tanto.
Però fa rumore, Dragan.
Comunque ed ovunque.
Regala sprazzi di puro spettacolo incastonati in periodi di assoluto grigiore.
L’apoteosi dell’incostanza.
Tralasciando le indiscutibili doti tecniche, va detto che Piksi resta uno dei pochissimi casi di indiscutibile capopopolo pur senza possedere le stimmate del vero e proprio leader.
Quando chiude col Calcio tutto il Giappone si alza in piedi per lui e si inchina, con asiatica ed onorevole devozione.
Gioca una gara di addio a Nagoya ed una a Niš, quasi a voler tratteggiare un affascinante trait d’union che tocca gli estremi geografici e tecnici della sua epopea calcistica.
Ha una moglie che adora e tre figli che ama alla follia, ma non ha alcuna voglia di passare i suoi pomeriggi a rilassarsi sul confortevole divano di casa.
Diventa presidente della Federcalcio Serba e viene eletto tra i membri del Comitato Tecnico della UEFA.
Successivamente si insedia, non senza polemiche a corredo, nel board della Stella Rossa, divenendone anche qui il presidente.
Se la cava discretamente, poi si rende conto che gli manca troppo la vita di campo.
Toglie la giacca ed indossa la tuta, iniziando ad allenare in Giappone e portando il suo Nagoya a vincere il campionato per la prima volta nella storia.
Più tardi si trasferisce in Cina, firmando per il Guangzhou.
Fortune alterne, per quasi un quinquennio.
Nel 2021, proprio nel giorno del suo compleanno, arriva la chiamata della Nazionale Serba, che guiderà ai prossimi Mondiali in Qatar.
L’occasione della vita, per lui.
Appassionato, metodico e disciplinato: questo è il Dragan in versione Mister.
Un’immagine che fa sorridere, ripensando a quel numero 10 impregnato di classe ed estro ma anche clamorosamente volubile (di tanto in tanto qualche follia la regala pure da allenatore, eh).
E che pur avendo ottenuto in carriera risultati degni di rilievo, tra premi personali e trionfi di squadra, nella memoria degli appassionati continua ad essere una specie di fuoriclasse incompiuto in quanto, nonostante i tanti infortuni che ne hanno minato il cammino, Piksi è stato senza alcun dubbio uno dei calciatori più talentuosi della sua generazione.
E che generazione!
Dragan Stojković: il Maradona dell’Est.
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