- Lo zingaro
Dirceu
“Lo zingaro”.
Perché ha cambiato più squadre che mutande, in carriera.
In verità aveva anche altri due nomignoli: “la formica”, affibbiatogli per sottolinearne l’ottima resistenza fisica, e “la farfalla”, attribuitogli per evidenziarne l’eleganza nei movimenti.
Parliamo di un gran bel giocatore, senza alcun dubbio.
Ah, dimenticavo.
Manca il soggetto della storia odierna: Dirceu.
Sì, proprio lui.
Il funambolo brasiliano che negli anni ottanta impresse il suo marchio di talento e tigna nel nostro -ai tempi- meraviglioso campionato di calcio.
Dirceu José Guimarães, in arte Dirceu, nasce a Curitiba, Brasile meridionale, nel giugno del 1952.
La sua famiglia ha umili origini, col padre -ex calciatore dilettante- che lavora in una conceria e la madre che si occupa della cura dei figli e, nel contempo, gestisce un piccolo bar con l’aiuto di alcuni parenti.
Da piccolo, come tantissimi suoi amichetti, José si innamora del pallone.
Lo gioca dovunque e con degli scarpini particolari, realizzati dal padre con artigiana pazienza.
Perché mentre la mamma di José si danna nel tentativo di riparare i danni che il suo vivace bambino arreca alle vetrate di casa colpendole con la sfera di cuoio, il papà lo incoraggia a continuare a giocare e divertirsi, in quanto convinto delle notevoli doti del ragazzino.
Quest’ultimo, tra l’altro, va anche bene a scuola.
Studente modello, intelligente e sveglio.
Non una rarità, forse, ma quasi.
A calcio pure se la cava alla grande.
Nelle partitelle rionali è sempre il migliore e presto viene notato da uno scout del Coritiba, che lo fa entrare nel settore giovanile del club carioca.
Compiuti i tredici anni di età, Dirceu viene ufficialmente cartellinato dalla società dello Stato del Paraná, ove continua a progredire, mostrando colpi da autentica promessa.
Appena sedicenne esordisce in prima squadra, senza alcuna remora.
Tutt’altro: sfrontato e determinato, Dirceu conquista subito la maglia da titolare del Curitiba e contribuisce alla vittoria di due titoli consecutivi del Campionato Paranaense (1971, 1972).
Gioca da ala sinistra, con compiti di copertura della fascia di competenza.
Per alcuni mesi non riceve neanche lo stipendio, benché non ne faccia un dramma: ama il calcio ed ama la maglia che indossa ed è conscio che per guadagnare bene ci sarà tempo.
Giovanissimo, ma con le idee già ben chiare.
Nel 1972, dopo aver svolto il Servizio Militare, viene convocato per i Giochi Olimpici che si tengono in Germania Ovest, a Monaco di Baviera.
Il Brasile, tra i favoriti del torneo, incappa in una pesante débâcle perdendo con la Danimarca (2-3), pareggiando con l’Ungheria (2-2) e venendo sconfitto anche dall’Iran (0-1), finendo quindi per abbandonare mestamente la kermesse.
Nonostante la presenza di elementi quali Falcao e Roberto Dinamite, i sudamericani non riescono ad esprimere il proprio gioco e tornano in patria tra le polemiche, che però non coinvolgono Dirceu.
Difatti il paranaense è tra i pochissimi a salvarsi, con le due reti messe a segno nei tre match disputati dal suo team.
La vetrina olimpica gli spalanca le porte della Nazionale maggiore e quelle del Botafogo, glorioso club di Rio de Janeiro.
Dirceu, poco più che maggiorenne, si ritrova in un contesto di alto valore professionale, rispetto all’ambiente famigliare e tranquillo dal quale proviene.
Quantomeno in teoria, ecco, poiché la pratica dice ben altro.
Nel Botafogo ci sono fiori di campioni, come il mitico Jairzinho, però l’atmosfera non è propriamente idilliaca.
Da parecchi anni il club non riesce a vincere alcunché ed i calciatori si sono oramai assuefatti all’idea di godersi la vita, piuttosto che sacrificarsi per la causa comune.
Dirceu, benché adolescente, non ama la vita mondana e preferisce allenarsi seriamente, per meritarsi lo stipendio e conquistare la stima e l’affetto dei suoi tifosi.
A Rio il giocatore si ferma per un quadriennio e, pur non potendolo immaginare, questo sarà il record di permanenza in un club della sua intera carriera.
Nel 1974 fa parte della spedizione brasiliana ai Mondiali, ancora una volta in Germania Ovest.
Il Commissario Tecnico Zagallo lo chiama dopo averlo seguito a lungo ed averlo testato in alcune amichevoli, una delle quali contro la Germania (quando si dice il destino) giocata benissimo da Dirceu, con una rete dalla distanza che beffa il forte portiere Maier e lo rende un idolo nel suo paese natio.
Ai Mondiali il nostro non è titolare, comunque.
Il Brasile, Campione del Mondo in carica, supera il primo turno con qualche patema, salvandosi dall’eliminazione precoce soltanto mediante la favorevole differenza reti rispetto alla Scozia.
La Jugoslavia di Šurjak vince invece il girone e spedisce i sudamericani in un girone del secondo turno nel quale tocca loro affrontare Olanda, Germania Est ed Argentina.
I verdeoro sconfiggono le ultime due, ma soccombono dinanzi a Johan Cruijff e compagni.
Dirceu conquista il posto da titolare nella seconda fase del torneo, cavandosela discretamente.
Il Brasile chiude al quarto posto, dopo aver perso la finale di consolazione con la Polonia.
Nel 1976 l’estroso centrocampista offensivo, ruolo nel quale si sta pian piano specializzando, cambia casacca, ma non città: difatti lo acquista l’ambizioso Fluminense, che in quegli anni sta costruendo una compagine in grado di trionfare nel campionato carioca e che mira a vincere anche quello brasiliano.
Il progetto che la stampa ed i tifosi chiamano Maquina Tricolor (Macchina Tricolore) riesce a metà, per così dire: perché, nonostante l’allestimento di una rosa di grande prestigio, il club riesce a portare a casa soltanto il primo obiettivo.
Elementi quali Rivellino, Carlos Alberto Torres, Gil, Narciso Doval, Pintinho e lo stesso Dirceu non bastano a salire sul podio più alto del campionato brasiliano.
E non basteranno neanche nella stagione seguente, allorquando il buon Dirceu sarà già altrove, però.
Perché il nazionale brasiliano passa al Vasco da Gama, terza tappa del suo “tour” di Rio de Janeiro.
Viene organizzato uno scambio con conguaglio, mediante il quale Dirceu passa al Vasco insieme ad un corposo assegno, mentre Il Fluminense può scegliere un paio di elementi in una rosa di calciatori della controparte.
I media giudicano l’operazione palesemente a sfavore del Vasco, ma i fatti danno ragione ai dirigenti dei bianconeri, che vincono il campionato carioca con ampio margine e fanno il bis della stagione seguente.
Ormai Dirceu è una garanzia, per chi vuole trionfare nel torneo statale e lottare sino alla fine per quello Nazionale.
A proposito di Nazionale: il calciatore di Curitiba è convocato per il Campionato del Mondo che si tiene in Argentina.
Ambiente caldissimo, sia a livello di tifo che, brutta storia, di politica e militaria
Ventiseienne, nel pieno della sua maturità calcistica, José partecipa al suo secondo mondiale.
Il Brasile ci arriva da favorito, col tecnico Claudio Coutinho che inizialmente parte inserendo Dirceu tra le riserve e facendolo entrare a pochi minuti dal termine della gara pareggiata con la Svezia (1-1).
Poi si convince a dargli fiducia e lo lancia titolare nel match con la Spagna, anch’esso terminato in parità (0-0) e nell’ultima partita del girone iniziale, vinta col risultato di 1-0 con l’Austria.
Nel secondo girone di qualificazione, quello che decide l’accesso alle finali, il Brasile inizia alla grande, sconfiggendo per 3-0 il Peru, con Dirceu che segna due reti.
Il pareggio per 0-0 con i padroni di casa dell’Argentina precede il 3-1 con cui il Brasile batte la Polonia.
Il parecchio discusso 6-0 con il quale l’Argentina sommerge di reti il Peru manda l’albiceleste in finale, poi vinta con l’Olanda, e costringe il Brasile alla finale di consolazione per il terzo posto, in cui i verdeoro superano per 2-1 l’Italia, con la rete decisiva realizzata proprio da Dirceu.
Quest’ultimo, a fine torneo, viene premiato come terzo miglior giocatore del torneo e come membro della squadra ideale della kermesse.
Le sue prestazioni al mondiale sono state di gran lunga tra le migliori della squadra, composta da calciatori molto forti (Zico, Roberto Dinamite, Rivellino, Reinaldo, Cerezo, Batista, Emerson Leao, Edinho ed altri ancora).
Oltre ai premi personali, Dirceu conquista definitivamente la stima degli addetti ai lavori e scatena l’interesse di parecchie società.
Lui al Vasco da Gama si trova bene, però è interessato ad un esperienza all’estero.
Riceve una succulenta proposta dai messicani del Club America, di Città del Messico: seicentomila dollari di cartellino al Vasco ed una percentuale della cifra al giocatore, con un contratto triennale estremamente munifico a corredo.
Il Vasco accetta e Dirceu idem come sopra: con il denaro ricevuto nel primo anno di militanza con la nuova società acquista un appezzamento di terreno nella zona dove viveva da bambino e ci costruisce alcuni edifici, che dona ai suoi familiari.
Cuore grande e mentalità vincente per un calciatore atipico, sia in campo che fuori.
Nel campionato messicano Dirceu si tuffa con entusiasmo, scontrandosi presto con una realtà decisamente avversa: i difensori locali lo vedono come un brasiliano che vuole insegnare loro come si gioca al calcio e lo massacrano di colpi, la maggior parte dei quali cattivi e proibiti.
José, che caratterialmente è uno tosto, gioca a calcio e fa la differenza in campo.
Poi, stanco di sputi ed altri atteggiamenti oltremisura, cede al corteggiamento dell’Atletico Madrid ed attraversa l’Oceano traslocando nel Vecchio Continente, smanioso di confrontarsi con un calcio di alto livello.
Firma un triennale con gli iberici e porta con sé gran parte della sua famiglia.
L’Atletico è una delle grandi di Spagna: José fa il suo, ma il club è molto altalenante nei primi anni ottanta.
Tredicesimo, terzo ed ottavo posto in Liga, poi una semifinale di Coppa del Re ed un paio di anonime comparsate in Coppa UEFA: questo il bottino, non esaltante, di Dirceu con la maglia dell’Atletico.
E dire che al terzo anno con i Colchoneros a lui si affianca anche un giovane e promettentissimo attaccante, che di nome fa Hugo Sánchez e che in futuro andrà a fare le fortune dei cugini del Real Madrid: non è sufficiente, però, a condurre l’Atletico verso la gloria.
Nel 1982 Dirceu resta in Spagna, per disputare il Campionato del Mondo.
Brasile ancora una volta favorito e José che inizia il torneo da titolare.
Telê Santana porta nella penisola iberica un gruppo composto da gente di grandissimo talento: Zico, Eder, Junior, Falcao, Socrates, Cerezo.
La vittoria per 2-1 contro l’Unione Sovietica di Dasaev e Blokhin è un buon viatico per il proseguimento della kermesse.
Dirceu gioca il primo tempo, poi viene fatto fuori dal suo tecnico.
Definitivamente, quantomeno per quel che concerne “la campagna di Spagna”.
Nel secondo incontro i sudamericani infliggono un sonoro 4-1 alla Scozia di Souness e Strachan, mentre nel terzo superano agevolmente la Nuova Zelanda di Rufer e Sumner.
Nella fase successiva del torneo il Brasile si ritrova in un girone di ferro con Italia ed Argentina.
Gli argentini di Maradona e Passarella soccombono per 3-1 alla furia verdeoro, mentre gli uomini di Bearzot sfoderano una monumentale prestazione nel match decisivo e vincono per 3-2, con Paolo Rossi che entra nel Mito con una tripletta messa a segno e trascina l’Italia verso quello che sarà un trionfo epocale, nella Coppa del Mondo.
I brasiliani, nonostante una quadra fortissima, tornano a casa lamentando la mancanza di un portiere affidabile e di un centravanti all’altezza.
“Hai detto cotica!”, gli rispondono in coro Dino Zoff e Paolo Rossi.
Al termine del Mondiale il nostro José Dirceu è ingolosito da alcune proposte che gli giungono dall’Italia, ove si svolge quello che negli anni 80 è incontestabilmente il miglior campionato del pianeta.
Rispedisce al mittente la proposta francese del Paris Saint-Germain, saluta affettuosamente alcuni club sudamericani che richiedono i suoi servigi e valuta la migliore offerta dalla penisola che per il brasiliano giunge dalla capitale: la Roma, che unitamente alle altre compagini italiche può tesserare anche un secondo straniero, propone al sudamericano tre anni di contratto e la prospettiva di lottare per il vertice.
Pare fatta, poi qualcosa si complica nell’affare e i giallorossi virano sull’austriaco Prohaska, ingaggiato dall’Inter.
Dirceu, che l’Atletico Madrid sacrifica per acquisire il solido centrocampista cecoslovacco di origine tedesca Votava, si ritrova nel neopromosso Verona, agli ordini del bravo tecnico Bagnoli.
Quest’ultimo si lamenta dell’acquisto -seppur elegantemente, come costume abituale- in quanto, a suo dire, il Verona sulla trequarti sarebbe già al completo e necessiterebbe, piuttosto, di rinforzi in difesa e a centrocampo.
Sogna l’argentino e suo omonimo Ardiles, il buon Osvaldo.
Invece gli tocca Dirceu e l’estroso calciatore di Curitiba non fa una grinza: scende in campo con mestiere e sapienza e fa la differenza, eccome.
Il Verona, a sorpresa, lotta per mesi per il primato ed infine chiude con un onorevolissimo quarto posto, ultimo utile per disputare la Coppa UEFA successiva, oltre a giungere sino alla finale di Coppa Italia, persa dinanzi alla Juventus di Platini e Paolo Rossi che, battuta per 2-0 in Veneto, riesce a rimontare gli scaligeri al ritorno, superandoli per 3-0 dopo i tempi supplementari.
Annata da incorniciare ugualmente, per Dirceu e compagni.
In estate tra il calciatore verdeoro e la società gialloblu nasce un contenzioso che sfocia in un procedimento legale: accade che Dirceu firmi il rinnovo con i Butei (500 milioni + premi), salvo poi ripensarci ed inventare storie puerili per giustificare il cambio di direzione.
I dirigenti veronesi subodorano l’inganno e provano ad ingabbiare il giocatore, facendo valere l’accordo sancito in precedenza.
Dirceu si rivolge così alla Federazione che, dopo una lunga serie di tentativi di mediazione andati a vuoto, riesce a sistemare la questione, col Verona che riceve un indennizzo per la perdita del centrocampista e con quest’ultimo che, svincolato, può firmare per il Napoli, che da settimane era dietro al giocatore.
José fa coppia col forte libero olandese Krol e sostituisce l’argentino Diaz, venduto all’Avellino.
IL Napoli non è ancora la corazzata che imporrà la sua forza negli anni a venire e l’annata si rivela essere abbastanza insidiosa.
Il cambio di allenatore a stagione in corso -Marchesi per Santin- apporta qualche miglioria e la squadra, grazie anche alla presenza di Dirceu, centra una sofferta salvezza.
Nei mesi caldi i partenopei riescono a mettere le mani su Maradona, il Dio del Calcio, e Dirceu si ritrova al centro di un caos infernale poiché gli azzurri, che hanno spedito Krol al Cannes, in Francia, ed hanno preso il connazionale Bertoni dalla Fiorentina per aiutare Re Diego ad integrarsi, debbono necessariamente liberarsi di José per far posto al fenomeno argentino.
Il brasiliano, astutamente, prova a monetizzare al massimo la situazione, facendosi rappresentare dallo scaltro manager Caliendo e chiedendo una succulenta buonuscita per traslocare dal capoluogo campano.
Alla fine le parti trovano un accordo, con José che lascia il suo appartamento al neoarrivato, incassa i circa cinquecentomila dollari previsti per i primi due anni di contratto col Napoli e becca una sostanziosa buonuscita (un miliardo e duecento milioni delle vecchie lire, in totale) per il disturbo e rinuncia al terzo anno di militanza in Campania previsto dagli accordi sanciti in precedenza, diventando proprietario del proprio cartellino e mettendosi sul mercato, alla ricerca di una nuova squadra.
Riceve diverse proposte da Francia, Svizzera, Belgio e Germania.
Non volendo lasciare il Bel Paese, riflette anche sulle offerte di Cremonese ed Ascoli: i lombardi cercano un elemento più offensivo e puntano su Juary, prelevato proprio dal club presieduto dal mitico Costantino Rozzi.
A José non resta, quindi, che firmare per i marchigiani e mettersi a disposizione dell’ottimo allenatore Mazzone insieme all’attaccante argentino Hernandez, comprato dal Torino, ed andando a sostituire il bravo ma sfortunatissimo Ludo Coeck, al quale viene comunicata la rescissione di contratto a causa di persistenti infortuni.
La squadra, invero modesta, non riesce ad ingranare e Mazzone, dopo aver provato a dimettersi per tentare di dare una sterzata ai suoi ragazzi, deve ugualmente fare posto al carismatico Vujadin Boškov, coadiuvato dal fido collaboratore tecnico Mario Colautti.
Niente da fare, però: l’Ascoli retrocede in B e José Dirceu, tra i migliori dei piceni, passa al Como, dove va a sostituire il tedesco Hansi Müller, che i lombardi hanno ceduto al Wacker Innsbruck, in Austria.
I lariani, con Clagluna in panca, dispongono di una rosa discreta.
La stagione non comincia nel migliore dei modi, sfortunatamente per mister Clagluna che è costretto a farsi da parte.
Lo sostituisce Marchesi, il quale riesce a risollevare le sorti del team lombardo, guidandolo ad un onorevolissimo nono posto finale in graduatoria.
Come se non bastasse gli azzurri sfiorano la finale di Coppa Italia, sfumata soltanto a causa di una sconfitta patita a tavolino, per degli incidenti verificatisi nel match di ritorno contro la Samp, col Como in vantaggio ed ormai vicinissimo a centrare l’obiettivo.
Dirceu ispira la punta svedese Corneliusson, che fa coppia col giovane e forte Borgonovo, e regala sprazzi di autentico spettacolo.
José sul Lago si trova a meraviglia, nonostante un piccolo infortunio e qualche incomprensione con Clagluna, ad inizio annata.
Viene eletto miglior giocatore del campionato di serie A edizione 1985-86 (capito di che e di chi parliamo, sì?) e vorrebbe restare al Como: ma il soprannome di zingaro non gli è stato appioppato per puro caso ed in estate si trasferisce all’Avellino, sua quinta squadra italiana in cinque anni, che già lo aveva cercato dodici mesi prima, insieme ad Atalanta ed Udinese.
E dire che Dirceu aveva firmato col Como e si era subito preso la fascia di capitano per cercare di ottenere la qualificazione al Campionato del Mondo del 1986, in Messico.
Per lui sarebbe stato il quarto mondiale consecutivo, andando ad eguagliare il primato di un signore di nome Pelè: ma un leggero infortunio rimediato quando oramai mancano poche settimane alla manifestazione spinge il C.T. verdeoro, Telê Santana, a compiere altre scelte, facendo imbufalire José e regalandogli una estate pregna di rabbia e delusione, oltre alla consapevolezza di aver chiuso con la sua Nazionale (con oltre una quarantina di gettoni di presenza a corredo).
Ad Avellino il buon Dirceu incassa quattrocento milioni di lire per dodici mesi e trova una compagine ben attrezzata per disputare il decimo torneo consecutivo in A.
Il portiere è Di Leo.
In difesa agiscono Armando Ferroni, Colantuono, Amodio e Murelli.
Sulle fasce ci sono Alessandro Bertoni ed Alessio.
In mezzo al campo Colomba e Paolo Benedetti dirigono il traffico.
Davanti Tovalieri e l’austriaco Schachner hanno il compito di scardinare le difese nemiche.
Dirceu è il invece il coniglio che Vinicio tira fuori dal cilindro allorquando serve rimescolare le carte.
E lo fa facendolo partire dall’inizio, sia chiaro.
A fargli spazio è solitamente uno degli attaccanti o uno dei centrocampisti laterali, a seconda dei casi.
Perché José Dirceu è un signor giocatore, che non può fare panca a nessuno.
O quasi.
Tuttocampista autentico, a metà tra un olandese dei tempi d’oro ed un brasiliano atipico quanto versatile.
Difatti il calciatore di Curitiba sa unire tecnica sopraffina e resistenza fisica: pur non essendo di certo un colosso, tutt’altro, Dirceu copre una vasta zona di campo, svariando dalla mediana sino alla trequarti.
Nasce come ala sinistra, poi gioca da interno, da regista, da trequartista, da seconda punta, da ala di raccordo e da laterale.
Il suo sinistro è a dir poco letale.
Si esalta sui calci di punizione, soprattutto dalla distanza, e sulle millimetriche parabole che disegnano calcio allo stato dell’arte e mandano in visibilio i suoi tifosi.
Estro e sostanza, quindi: un mix raro e tremendamente redditizio.
Affidabile rigorista, non riceve neanche un cartellino rosso in tutta la sua traiettoria calcistica.
Il brasiliano possiede mentalità e carattere ed il suo carisma non passa inosservato nelle compagini nelle quali milita e negli spogliatoi ove entra quasi sempre da leader.
Allegro e gioviale, coinvolge tutti i compagni nella vita di squadra ed è tra i primissimi calciatori a trasformare la propria figura in sponsor, attraverso marketing e promozioni, dimostrando un acume che nel mondo del Calcio, al tempo, non era particolarmente comune.
Grande visione di gioco in campo e, come detto, pure fuori.
Tre Mondiali giocati ed una carriera longeva ed importante, sviluppata con enorme serietà negli allenamenti e che forse avrebbe meritato un ulteriore pizzico di buona sorte, a livello di club.
Un numero dieci a tutti gli effetti, che da giovane ha praticato anche mezzofondo -ottenendo risultati di tutto rispetto, per altro- e che sul terreno di gioco non si ferma mai.
Non è velocissimo, ma testa e cuore lavorano all’unisono e sopperiscono alla grande a qualche piccolo limite intrinseco.
Non è soggetto ad infortuni gravi, mentre invece ha la tendenza a litigare con i suoi allenatori: non tanto perché si senta una prima donna, per quanto poi in realtà lo sia, ma piuttosto perché vorrebbe decidere cose che non sempre dovrebbero essere di sua pertinenza.
Talvolta esagera e ne paga le conseguenze ritrovandosi fuori da contesti d’élite che, francamente parlando, gli sarebbero stati consoni.
Capitano nato, sia con la fascia la braccio che senza, si assume sempre le sue responsabilità ed è tra i primissimi giocatori, anche in questo caso, a creare un sindacato della categoria, in Brasile.
La stagione in Irpinia è una delle migliori in carriera, per il fantasista verdeoro.
Segna sei reti e pare avere venticinque anni, anziché i trentacinque recitati dalla sua carta d’identità.
Nel calciomercato estivo flirta col Cesena senza andare a dama, non ritiene congrua la proposta del St-Etienne (Francia), rifiuta diversi approcci da tornei esotici ed infine torna in Brasile, al Vasco de Gama.
Dopo alcuni mesi di difficile convivenza con l’allenatore Lazaroni (futuro Commissario tecnico del Brasile) decide di firmare per i Miami Sharks, negli Stati Uniti, su invito del tecnico Carlos Alberto Torres, suo estimatore ed ex compagno agli inizi della carriera.
Quindi, a fine decennio ottanta, José Dirceu sente la saudade per la penisola e torna in Italia, accordandosi con l’Ebolitana, in serie D.
Per un biennio regala spettacolo e simpatia al pubblico locale, divertendosi anche a giocare a Calcio a 5 con la squadra del Bologna.
Le regole del periodo gli consentono di svolgere entrambe le mansioni, diciamo così, e lui non si tira mai indietro se c’è un pallone nei dintorni.
Chiusa la parentesi ebolitana, Dirceu trascorre alcuni mesi nel Benevento (sempre in D) e continua col Calcio a 5, nell’Ancona.
In questa fase della propria vita ne approfitta per sviluppare i suoi contatti ed ampliare alcuni business, aprendo un autonoleggio al Sud ed un pub al Nord.
Ha ben 43 primavere sulle spalle quando firma con lo Yucatan in Messico, non riuscendo a tornare al Botafogo, come avrebbe sognato di fare.
Atleticamente sta bene, però capisce che è arrivato il momento di appendere le scarpe al fatidico chiodo.
Si far dire, in verità.
Perché José ritorna a vivere in Brasile, essendo l’adorata moglie Vania in attesa del quarto erede.
E gioca a calcio ed a calcetto praticamente ogni giorno.
Invita in Sudamerica il suo caro amico Pasquale Sazio, che aveva conosciuto durante il periodo ad Eboli ed al quale prova a trovare un ingaggio in qualche squadra brasiliana.
A tal proposito José organizza alcune serate connesse all’ambiente del calcio locale.
Al termine di una di queste Dirceu e Pasquale, mentre tornano a casa, si ritrovano coinvolti in un incidente causato dall’alta velocità di un’auto impegnata in una corsa clandestina.
La vettura di José viene letteralmente spazzata via da un violentissimo frontale che non lascia scampo ad entrambi: Pasquale, scaraventato al di fuori dell’abitacolo, muore sul colpo.
L’altro, intrappolato nell’abitacolo, perde la vita pochi secondi più tardi.
Una tragedia immane.
Soltanto qualche ora prima Diva Delfina, la madre dell’ex campione della Seleção, era passata a sorpresa trovare il figlio ed insieme a lui erano andati a far spese presso un vicino centro commerciale, con José che si era divertito a giocare con i carrelli come faceva da bambino: questa scena, letta dopo l’assurda disgrazia accaduta di lì a breve, assume una luce tutta sua, forse con un significato ancor più struggente del dramma stesso.
Vania si ritrova con i figli a lottare per fare in modo da non avere una gravidanza che vada ad aggiungersi al cumulo di tristezza già in atto: ci riesce, con una forza interiore che ricorda quella dell’adorato marito quando indossava la casacca da gioco.
Dirceu è stato uno dei migliori interpreti della sua generazione calcistica.
Le sue iconiche figurine hanno accompagnato moltissimi appassionati in quel meraviglioso viaggio che è stato il Calcio di alcuni decenni or sono.
Maradona, Platini, Zico.
E poi lui, tra i migliori fantasisti passati in quegli anni dal nostro campionato.
Lottava spesso per salvarsi, nonostante un talento di categoria superiore.
E lo faceva col sorriso sulle labbra, con spirito battagliero ma con una leggerezza che gli rendeva onore.
Mai espulso, rarissimamente ammonito e manco per scherzo litigioso.
Non che fosse un timido, oh.
Anzi: aveva la cazzimma insita nel DNA, però manifestata con una guasconeria ed una disponibilità, sia in campo che fuori, che oggi sarebbe di una rarità infinita.
Manca tanto, Dirceu.
Ad Eboli gli hanno intitolato lo stadio locale, in segno di riconoscenza per tutto ciò -tanto- che José ha rappresentato per la cittadina del salernitano e, ancor di più, per la sua gente.
In Brasile lo ricordano tutti, ma proprio tutti.
Un Mito, a modo suo.
Bellissima la descrizione che ne fanno i figli, raccontando di come il padre fosse pronto a giocare a calcio in qualsiasi momento ed ovunque, fermandosi a scambiare qualche parola con chiunque ne avesse desiderio ed andando contro le abitudini -quando non le regole- dei calciatori odierni, malati di social ed indifferenti a qualsivoglia dimostrazione di umanità nei confronti dei tifosi, spesso visti come un disturbo piuttosto che altro.
Come per tanti calciatori di quell’epoca, un sentito e doveroso grazie è d’uopo, da parte mia e di tutti coloro che sono cresciuti insieme a loro e, chissà, forse anche grazie a loro.
Un abbraccio, meu amigo.
Ovunque Tu sia ora.
José Dirceu: lo zingaro.
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