- 1986
Un articolo oggi pubblicato sul Corriere della Sera, a firma di Francesco Battistini.
Una tragedia assurda, immane ed anche tipica nella sua, purtroppo, “sovieticità”.
Un articolo che ha generato diverse polemiche per alcune palesi incongruenze rispetto alle verità storiche finora appurate e, diciamo così, conclamate.
La memoria è un bene da tutelare.
Farlo con coscienza, accortezza e precisione è un dovere.
Altrettanto importante, quantomeno.
Condivido ugualmente, nella speranza che il ricordo superi tutto il resto.
Tutto, proprio tutto.
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CHERNOBYL, 34 ANNI DOPO: FOTO E STORIE DALLA CITTÀ DELLA MORTE
L’erba nera di Chernobyl: la storia della città della morte
di Francesco Battistini
C’erano circa 50mila abitanti a Pripyat, Ucraina, prima del 26 aprile 1986. Si affollarono sul ponte della ferrovia, per guardare i fumi atomici che si alzavano fino alle stelle, ignari di che cosa stesse per capitare loro. E ancora oggi, il bilancio delle vittime è un mistero
Erba nera. Pochi nomi contengono un destino come Chernobyl: in ucraino, letteralmente, l’ “erba nera”. Quella specie d’artemisia che allucina, s’ammala, si copre di fuliggine. Prima che Chernobyl diventasse Chernobyl, la sua erba era famosa per le primule abbondanti e per le aiuole ben curate che crescevano a due chilometri dalla centrale nucleare, a Prypiat, nel capoluogo a cavallo fra l’Ucraina e la Bielorussia che ai tempi sovietici chiamavano tutti la Città dei Fiori e che vedeva fiorire un rinomato ospedale pediatrico, un grande centro commerciale, due alberghi, un bel po’ di bar e ristoranti, i cinema, i teatri, i centri polifunzionali…
Là dove c’era l’erba nera, ora c’è una città fantasma. La ruota panoramica sgangherata, che smise subito di girare. Il parco giochi muto. La piscina vuota e sbrecciata, coi lettini lasciati dov’erano. Le case abbandonate e saccheggiate dagli sciacalli, pazzi incoscienti che di notte ancora oggi s’infilano nell’area proibita per rubare ricordini contaminati e metalli radioattivi da rivendere a chissà chi. Se in questi mesi di Covid abbiamo imparato tutti che cos’è il lockdown, in quegli anni di cesio il mondo scoprì come si sopravvive a un meltdown: il crollo d’un nocciolo radioattivo, la fusione, la catastrofe che già allora s’aggravò per una serie d’errori da inesperienza, di censure da stupidità, di bugie da criminali, di ritardi da dittatura.
UNA PANDEMIA NUCLEARE
All’una e 23 della notte del 26 aprile, quando esplose il reattore numero 4 “Lenin” e a dirlo al mondo non furono le autorità dell’Urss, ma i satelliti-spia americani che fotografarono una strana nube salire da Chernobyl, quel 1986 segnò la nostra prima emergenza ambientale e globale. Una bomba radioattiva, 500 volte più potente dell’atomica di Hiroshima. Col Comitato centrale del Pcus, il partito comunista, che da Mosca negava e minimizzava e taceva. Coi poveri e ignari abitanti di Prypiat che la prima sera andarono subito sul ponte della ferrovia – oggi ricordato come il Ponte della Morte – a rimirare quel meraviglioso e spaventoso arcobaleno atomico che s’alzava fin sulle stelle, a lasciarsi investire inconsapevoli dalla brezza radioattiva che di lì a poche settimane li avrebbe uccisi. Con gli esperti nucleari d’allora, come i virologi d’oggi, bravissimi a spiegarci tutto e il contrario di tutto, ma nella sostanza incapaci di fronteggiare un disastro senza precedenti e d’evitare una catena di morte che dopo 34 anni non abbiamo ancora misurato.
IL MISTERO DELLE VITTIME
Secondo l’inattendibile contabilità ufficiale, ci furono 65 decessi e 4mila tumori alla tiroide. A contare bene, fu una strage incalcolabile: almeno 30mila vittime, nell’immediato e nei decenni successivi, 400mila sfollati e cinque milioni di persone costrette a controlli medici speciali, tre milioni di ragazzini spediti per anni a curarsi all’estero (i famosi “bambini di Chernobyl”, che riempivano le nostre colonie estive), migliaia di neonati malformati (solo in Germania, ogni mille parti, la media dei casi di sindrome di Down schizzò da 1,35 a 46), un aumento impressionante in tutta Europa di spine bifide, d’anencefalie e di cancri provocati da cesio e da iodio radioattivi…
Per spegnere, tamponare, decontaminare, soccorrere, trasportare, evacuare e quant’altro, furono assoldati 850mila fra pompieri, lettighieri e “liquidatori”. Erano professionisti, o volontari spesso loro malgrado, all’inizio mandati allo sbaraglio e a mani nude, poi istruiti a vestire tute speciali e a ripulire la grafite e a non restare sul posto più di 40 secondi, pena la morte certa per radiazioni; una ricerca del 2004 ha scoperto che i figli e i nipoti di molti di quei “liquidatori”, ancora oggi, portano nel corpo disturbi gravi e malattie congenite.
LA NATURA INFETTATA
Nei boschi di Chernobyl, furono mandate squadre con l’ordine d’abbattere tutti i cani randagi e gli animali rimasti senza padrone. Da allora – e per il sollazzo dei centomila turisti l’anno che da Kiev indossano schermature speciali, si fanno misurare con un geiger e poi partono nei tour guidati sul luogo dell’esplosione -, da queste parti circolano fantasie horror (vedi il film “Chernobyl Diaries”, 2012) sulle mutazioni genetiche causate dalla nube. Per lo più trattasi di leggende metropolitane, anche se i segni lasciati sulla natura sono profondi. La peste nucleare unse i russi, i bielorussi e gli ucraini, poi toccò la Scandinavia, l’Olanda, il Belgio, la Gran Bretagna, quindi virò sull’Europa dell’Est, sui Balcani, sul Mediterraneo settentrionale, colpì duro l’Austria, la Svizzera e la Baviera: nel 2014, quasi trent’anni dopo il meltdown, in Svezia come al confine tra Italia e Slovenia sono stati trovati cinghiali, cervi, renne con concentrazioni di radioattività fino a dieci volte la norma. In Italia la nube ci sovrastò quattro giorni, dal 30 aprile al 3 maggio, c’era un lungo ponte e la gente si godeva il primo sole all’aperto. Nessuno impose una clausura da Covid, fu vietato solo il consumo d’ortofrutta e poco altro (salvo il referendum che, l’anno dopo, avrebbe cancellato tutte le centrali nucleari dal nostro patrimonio energetico). Nel 2013, la Procura di Vercelli ha aperto un’inchiesta su anomale contaminazioni d’alcuni campi agricoli , riscontrabili ancora oggi nel sottosuolo oltre i dieci centimetri. Secondo Greenpeace, la Zona di Alienazione di Chernobyl – una cintura di trenta chilometri dov’è vietato vivere e svolgere qualsiasi attività – resterà inabitabile per i prossimi tremila anni: qualcuno si spinge a prevederne ventiquattromila.
QUANTI ERRORI E CENSURE
Oggi l’unico rimedio per contenere le radiazioni, sempre potenti, è lo stesso escogitato dagli esperti dell’epoca: il sarcofago. Perché allora ci fu quello che chiamarono “l’effetto camino”: fumi e prodotti della fissione sparati in aria dal gran calore, uranio e plutonio che volarono in cielo a caddero un po’ dappertutto, portati anche dalle piogge. Il primo intervento dei sovietici si limitò alle tonnellate di sabbia gettate con gli elicotteri, da un’altezza di cento metri, che contaminarono i piloti e in realtà servirono solo a surriscaldare il nocciolo, facendolo affondare nel terreno. Quindi si provò con l’acqua, che doveva spegnere l’incendio e invece fece reazione e provocò molti cortocircuiti, alimentando per quindici giorni altre fiamme ed esplosioni. Ora, ecco dunque la protezione del sarcofago: una corazza di cemento da un miliardo di dollari che nei decenni s’è piano piano consumata, poi è stata ricostruita grazie al contributo di 45 Paesi donatori e alla tecnologia d’aziende anche italiane, tipo la friulana Cimolai. Il nuovo sarcofago, rifatto nella guerra civile che sta spolpando le finanze dell’Ucraina, è alto 108 metri e lungo 275, dovrebbe durare almeno cent’anni ed evitare che il nocciolo radioattivo sfondi nell’aria o sprofondi nelle falde acquifere. L’immagine del corium colato nel basamento della centrale, una specie di zampa d’elefante, è ancora lì a ricordarci che cos’è accaduto e che cosa potrebbe di nuovo succedere. Là dentro, la lava radioattiva brucia a mille gradi, basta un’esposizione di cinque minuti per uccidere chiunque in meno di due giorni: quel che ha combinato l’uomo con le sue inefficienze, nemmeno il maremoto del 2011 in Giappone e la catastrofe nucleare a Fukushima.
POLITICI DA BARZELLETTA
Chi ha pagato? Sei ingegneri, processati e condannati in epoca sovietica. Uno di loro, finito in clinica psichiatrica, è stato poi riassunto in un’altra centrale atomica. Il capo progettista di Chernobyl, Valerij Legatov, dovette spiegare perché fosse stato ignorato un analogo incidente del 1982. Non arrivò mai alla sbarra: depresso e lui stesso contaminato, s’uccise il 27 aprile 1988, due anni dopo il disastro e il giorno dopo l’anniversario di tutti quei morti. Nessuno ai vertici s’è mai preso la responsabilità degli errori e del silenzio imposto alle nomenklature. Nemmeno Gorbaciov, che era segretario del Pcus. Nel 2009, sono stati pubblicati negli Usa i documenti segreti del Politburo. Una mole impressionante d’insabbiamenti e d’aggiustamenti della realtà. Il regime non ammise nulla, anzi: si è scoperto che a quel tempo aveva cambiato i protocolli che fissavano i limiti massimi d’esposizione alle radiazioni nucleari, aveva dimesso dagli ospedali i contaminati pur sapendo la verità sulle loro condizioni, aveva rispedito in aree a rischio i soggetti più deboli (e quindi sacrificabili), aveva deciso addirittura di riciclare in prodotti industriali il latte e le carni provenienti da Chernobyl…
L’attenzione adesso è cambiata, ma neanche troppo. In aprile sono scoppiati vari incendi, intorno all’area proibita, e nei boschi il picco radioattivo è salito di sedici volte oltre il consentito: le autorità ucraine hanno fatto quel che han potuto, in piena emergenza coronavirus, ma il lassismo è quotidiano ed è la norma che si facciano affari con quel che resta della tragedia. Camion che in segreto trasportano metallo a rischio. Grossisti che smerciano funghi e prodotti agricoli vietati. Il mercato degli alberi tagliati nelle foreste rosse, gestito dalle mafie ucraine: il legname viene esportato di nascosto in Transilvania e, di qui, rivenduto in Europa come produzione romena. C’è troppa fretta di seppellire, negare, cancellare. Un’altra volta. “E’ ora di smettere d’impaurire la gente con questa storia di Chernobyl”, ha spiegato qualche tempo fa il presidente ucraino, Vladimir Zelensky: “Bisogna rendere la zona d’esclusione una calamita scientifica e turistica”. Calamita, ha detto. Non calamità: Zelensky faceva il comico, prima di darsi alla politica, ma gli è rimasto il gusto di farci ridere per non farci piangere.
da www.corriere.it