- 1997
Ben Folds Five – Whatever and Ever Amen
L’ho citato qui.
Negli ultimi scampoli d’inverno del 1997 venne dato alle stampe Whatever and Ever Amen, il secondo album del gruppo statunitense Ben Folds Five.
Io avevo da poco concluso il Servizio Militare ed in quei mesi mi ero concesso un po’ di relax, viaggiando spesso tra l’Italia e l’Europa.
La base era sempre Roma, ovviamente, dove già avevo piantato le tende durante la leva e, in realtà, anche un pizzico prima.
E fu proprio nella capitale che presi questo CD, incuriosito da un paio di recensioni cartacee (Il Mucchio Selvaggio e Rockstar, per l’esattezza) che ne avevano esaltato la cifra stilistica, sottolineando -in primis- la totale assenza di una chitarra.
“Ma come?”, mi domandavo.
Un disco di musica rock senza ricorrere neanche per un attimo all’utilizzo dello strumento rock per eccellenza?
Va bene che è roba alternativa, indie e tutto quel che si vuole, certo.
Però, in effetti, immaginarsi un’opera intera che sia priva di un chitarrista e, contestualmente, suoni ugualmente rock, beh, è impresa ardua.
Ben Folds è un musicista a tutto tondo: pianista talentuoso e paraculo, compositore graffiante ed incisivo, arrangiatore abile e raffinato, produttore attento ed innovativo.
Con lui ci sono l’ottimo bassista Robert Sledge e l’altrettanto valente Darren Jessee, batterista.
Folds si occupa anche dei testi, coadiuvato in alcuni frangenti dall’ex moglie Anna Goodman e dal succitato Jessee.
Il risultato, a parere dello scrivente, è sorprendente.
Sì, sorprendente.
Questo è il termine col quale definirei -anzi: definisco- il lavoro in oggetto.
Ed è lo stesso vocabolo che ricordo di aver letto nelle recensioni di cui sopra da parte di addetti ai lavori ben più preparati dello scrivente nell’esprimersi a riguardo e che rimandano il trio a richiami di Elton John, Billy Joel, Joe Jackson e Steely Dan, tra gli altri.
Whatever and Ever Amen sorprende soprattutto per la sua scrittura completamente priva di filtri, per le sue melodie oltremodo ammalianti, per il suo incedere ordinatamente disordinatissimo.
Un caos organizzato che affascina, avvince, conquista.
Dentro vi è un caleidoscopio emozionale di rara complessità e spessore, in grado di passare con mirabolante disinvoltura da argomenti estremamente delicati e grevi a puttanate di dimensioni cosmiche.
Intenso e potente, WAEA non ha alcun timore di mostrare i propri pregi e di esaltare, ove necessario, i propri difetti.
Il tutto miscelando gli uni con gli altri e viceversa.
Non per confondere, sia chiaro.
Quanto piuttosto per invogliare a riflettere se veramente ciò al quale diamo una fottuta importanza sia poi veramente degno di riceverla, così come -al contrario- se non sia il caso di attenzionare maggiormente certe “situazioni” apparentemente insignificanti e magari, invece, più determinanti nel nostro percorso esistenziale rispetto a quelle evocate in precedenza.
12 brani che, al solito, aumentano nelle varie edizioni successive.
Un’ora e un quarto di alienazione e squilibrio, con un’energia irresistibile che in qualche arcana maniera riesce perfettamente a coesistere con svariati passaggi di devastante malinconia, quando non proprio di assoluta paranoia.
–One Angry Dwarf and 200 Solemn Faces, col suo ritmo irresistibile, mette subito in chiaro che il pianoforte di Folds dominerà la scena e lo farà -attenzione!- senza togliere agli altri due protagonisti lo spazio che meritano.
–Fair, una cantilena pregna di caustico dileggio amoroso, è sul podio corcioniano, col suo ondeggiare assurdamente delizioso.
–Brick è il singolo più noto del lotto ed è fuori concorso: una ballata densa, lancinante ed angosciosa che, come un ossimoro personale e confidenziale, squarcia le coscienze e racconta di quando al buon Ben toccò di accompagnare la sua allora compagna di giochi e di liceo ad abortire.
–Selfless, Cold and Composed è un riuscitissimo intruglio di stili diversi: jazz, low-fi, classica, pop.
Il piano picchia furiosamente tra violini ed altri strumenti ad arco e la batteria segue tutti con leggiadria, senza sbagliare un colpo.
–Smoke è maledettamente semplice nel suo incedere, tanto da meravigliare per il fatto che non riesca a risultare anonima ma, bensì, sembri pure divertente e brillante.
–Battle of Who Could Care Less è anch’essa sul podio, con uno swing corale ricco di vivacità ed atmosfera.
–Evaporated chiude l’album (ed il podio condiviso) con un tono di inquietudine che lo splendido giro di basso impreziosisce con sublime maestria.
Gli altri brani non sono certo da meno: non ci sono episodi minori, ecco.
Uno di quei dischi con cui ho un rapporto molto strano: perché mi piace parecchio ma lo ascolto di rado.
Come altri suoi simili, abbisogno di tutta una serie di condizioni per far sì che mi venga voglia di metterlo su.
Quando ciò accade, dal punto di vista squisitamente emotivo, ritorno a fine anni novanta e provo la medesima sensazione che avvertii ai tempi, allorquando mi parve di leggere tra le pieghe (folds, in inglese) dell’opera un percorso interiore che, successivamente, avrei avuto occasione di verificare nell’arco degli anni.
Intendiamoci: Ben Folds non è il Mago do Nascimento ed i suoi compagni non leggono il futuro.
Semplicemente in Whatever and Ever Amen vi sono tutta una serie di elementi che con brio, fervore, canzonatura e passione vengono raccontati come se fossimo dinanzi ad un vademecum della vita e dei sentimenti che la compongono.
Faranno altre cose interessanti, i Ben Folds Five.
Si separeranno presto, salvo ritrovarsi brevemente prima di chiudere definitivamente la saga e dedicarsi ad avventure in solitaria.
In questo disco, tra qualche autocompiacimento che si perdona con piacere e durante una fase in cui il grunge ed il britpop se la comandavano alla grandissima, riuscirono a dare spettacolo senza che vi fosse una chitarra nel raggio di chilometri.
Come il Barcellona di Guardiola, vincente ed inarrestabile senza disporre di un centravanti vero e proprio.
Per scelta, mica per scherzo.
O forse proprio per sbeffeggiare le tradizioni più consolidate.
Ben Folds Five – Whatever and Ever Amen: 8
V74